“Un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro“.
Don Abbondio: descrizione fisica e caratteriale
L’eroe della paura
Don Abbondio è il primo personaggio che Alessandro Manzoni ci presenta nei Promessi Sposi.
Lo incontriamo:
- mentre recita il suo uffizio torna “bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628“
- in prossimità del tabernacolo incontra i Bravi
Proprio da questo incontro al tabernacolo con i Bravi prende il via il romanzo e da subito l’autore ci dice che Don Abbondio:
- “non è nato cuor di leone“
- è “un animale senza artigli e senza zanne“
Manzoni ci dice subito che don Abbondio “non era nato con un cuor di leone” e questo è funzionale ad introdurre la descrizione della società del Seicento suddivisa in classi dove a farla da padrona erano i potenti, i governanti: “tali eran gli asili, tali i privilegi d’alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d’interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest’impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi“.
Sappiamo che i Promessi Sposi sono un romanzo storico, questa era l’intenzione del suo autore e iniziamo da subito a capire la situazione in cui i personaggi si muovono ed agiranno.
Effettuato il breve excursus che ci fa capire in quale mondo è cresciuto e vive don Abbondio, subito Manzoni descrive l’atteggiamento di questo curato:
- pavido e pusillanime
- che capisce “d’essere, in quella società, come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro“
- “non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno“
- che ubbidì “ai parenti che lo vollero prete“.
L’approccio diffidente e pauroso, proprio di un uomo senza coraggio, lo vediamo subito dopo il suo incontro con i Bravi: corre a casa e ha paura di parlare anche con Perpetua.
Questo aspetto lo si ritroverà per tutto il romanzo: non subisce né evoluzioni, né involuzioni caratteriali nel corso dei Promessi Sposi, infatti persino alla fine quando deve sposare nella sua chiesa i giovani Renzo e Lucia deve assicurarsi che don Rodrigo sia veramente morto.
Si può ben dire che don Abbondio sia l’eroe della paura.
Nel sistema dei personaggi dei Promessi Sposi lo troviamo tra gli strumenti degli oppressori, infatti diventa strumento di don Rodrigo per opprimere Lucia.
Don Abbondio: descrizione fisica
La sua descrizione fisica avviene in momenti diversi, ma è limitata:
- capitolo 1
viene indicata la sua età più che sessantenne: “il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni”
- capitolo 2
occhi grigi: “que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca“
- capitolo 8
– capelli bianchi
– folti baffi bianchi con pizzetto
– faccia bruna e rugosa
“Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.”
Don Abbondio: descrizione caratteriale
Don Abbondio è la persona che non intende in alcun modo “andarne di mezzo“, a differenza dell’altra figura religioso, che invece svolge proprio il ruolo di mediatore e sta sempre in mezzo, ovvero Padre Cristoforo.
Nell’ambito del romanzo che ci rappresenta il contrasto tra il male ed il bene, il reale e l’ideale, l’istinto e la ragione, troviamo don Abbondio che si chiama fuori da tutto: infatti ce lo dice bene il narratore onnisciente che “Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare“.
Infatti, se ci pensiamo bene, I Promessi Sposi prendono il via proprio dal rifiuto del curato di celebrare il matrimonio con la sua accondiscendenza ai bravi: “…Disposto… disposto sempre all’ubbidienza” e finisce quando lo stesso, alla fine, lo celebra.
Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui.
Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’adoperarsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche lui il suo po’ di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que’ tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po’ di sfogo, la sua salute n’avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v’eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch’egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch’era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr’occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri.
I Promessi Sposi, cap. I
Don Abbondio e la paura
Don Abbondio è sempre associato alla paura.
Durante il romanzo, dove compare il curato, il narratore lo presenta sempre assorto in soliloqui.
Lo ritroviamo:
- nella notte degli imbrogli (vedi riassunto capitolo 8)
- quando tenta di impedire a Perpetua di rivelare lo stratagemma messo in atto da Renzo e Lucia per effettuare il matrimonio a sorpresa (vedi riassunto capitolo 11)
- nel capitolo 23 quando si trova insieme ad altri parroci del territorio nel paese dove è venuto in visita il cardinale Federigo Borromeo (vedi riassunto capitolo 23).
Don Abbondio è in mezzo ad altri parroci, quando viene chiamato dal cappellano, perché il cardinale ha bisogno di parlare con lui.
Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo alla folla un: “io?” strascicato, con un’intonazione di maraviglia.
“Non è lei il signor curato di ***?” riprese il cappellano.
Per l’appunto; ma…”
“Sua signoria illustrissima e reverendissima vuol lei.”
“Me?” disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori l’uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso tra l’attonito e il disgustato. Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che voleva dire: a noi, andiamo; ci vuol tanto?Il cardinale (…) si voltò a don Abbondio.
Questo, che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell’altro signore, e che intanto dava un’occhiatina di sotto in su ora all’uno ora all’altro, seguitando a almanaccar tra sè che cosa mai potesse essere tutto quel rigirìo, s’accostò di più, fece una riverenza, e disse: “m’hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato.”
I Promessi Sposi, capitolo 23
Il cardinale gli dice di Lucia e che lui dovrà andare con l’Innominato a prenderla.
Don Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l’affanno e l’amaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo più a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio già formato sulla sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno d’ubbidienza. E non l’alzò che per fare un altro profondo inchino all’innominato, con un’occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis.
I Promessi Sposi, capitolo 23
Ecco che rivediamo ancora il suo assoggettarsi alle situazioni, la sua pavidità, l’incapacità di reazione.
Lo vediamo anche quando si trova nella stanza con l’Innominato.
Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda uno accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice nè approva; guarda il cane, e non ardisce accostarglisi, per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste; non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh se fossi a casa mia!
Al cardinale (…) diede di nuovo nell’occhio il pover’uomo, che rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo.
Stava l’innominato tutto raccolto in sè, pensieroso, impaziente che venisse il momento d’andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia (…) e il suo viso esprimeva un’agitazione concentrata, che all’occhio ombroso di don Abbondio poteva facilmente parere qualcosa di peggio.
I Promessi Sposi, capitolo 23
Ora inizia il soliloquio di don Abbondio.
Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me l’avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, m’ha da sentire la signora Perpetua, d’avermi cacciato qui per forza, quando non c’era necessità, fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi d’intorno accorrevano, anche più da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che quest’altro; e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me!
I Promessi Sposi, capitolo 23
Ed eccolo mentre è in viaggio verso il castello dell’Innominato:
— È un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l’argento vivo addosso, e non si contentino d’esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi per i capelli ne’ loro affari: io che non chiedo altro che d’esser lasciato vivere!
I Promessi Sposi, capitolo 23
Ancora una volta si evidenzia la volontà del curato di voler essere lasciato fuori, di non essere tirato in mezzo a situazioni. Lui sta bene a casa sua.
Ed il soliquio termina così:
Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata grossa; sa il cielo cos’ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia rovina… Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant’Antonio nel deserto; ora pare Oloferne in persona. Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo d’aiutarmi, perchè non mi ci son messo io di mio capriccio. —
I Promessi Sposi, capitolo 23
Anche durante il viaggio di ritorno, dal castello dell’Innominato, verso il paese dove si trova il cardinale, il narratore ci tratteggia ancora don Abbondio (vedi riassunto capitolo 24).
Vediamo il curato assorto ancora in un soliloquio, sebbene meno angosciato e con la “pauraccia“ cessata.
Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella pauraccia, s’era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono a spuntargli in cuore cent’altri dispiaceri; come, quand’è stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce. Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel presente, quanto ne’ pensieri dell’avvenire, non gli mancava pur troppo materia di tormentarsi.
I Promessi Sposi, capitolo 24
Don Abbondio è in sella alla mula ed inizia proprio a prendersela con lei, che cammina sul ciglio del sentiero.
I suoi pensieri sono legati al fatto che è stato obbligato ad andare con l’Innominato su richiesta del cardinale, che don Rodrigo possa pensare che la conversione dell’Innominato sia stata opera sua. Inizia il circolo vizioso del ritrovarsi in mezzo ai guai, non per volere suo, ma comunque lui si lascia “condurre a piacere altrui”.
(…) don Abbondio vedeva sotto di sè, quasi a perpendicolo, un salto, o come pensava lui, un precipizio. — Anche tu, — diceva tra sè alla bestia, — hai quel maledetto gusto d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero! —
E tirava la briglia dall’altra parte; ma inutilmente. Sicchè, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui. I bravi non gli facevan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava il padrone. — Ma, — rifletteva però, — se la notizia di questa gran conversione si sparge qua dentro, intanto che ci siamo ancora, chi sa come l’intenderanno costoro! Chi sa cosa nasce! Che s’andassero a immaginare che sia venuto io a fare il missionario! Povero me! mi martirizzano! — Il cipiglio dell’innominato non gli dava fastidio. — Per tenere a segno quelle facce lì, — pensava, — non ci vuol meno di questa qui; lo capisco anch’io; ma perchè deve toccare a me a trovarmi tra tutti costoro! —(…) dopo tant’incomodi, dopo tante agitazioni, e senza acquistarne merito, che ne dovessi portar la pena io.
Devo andar io a dire che son venuto qui per comando espresso di sua signoria illustrissima, e non di mia volontà? Parrebbe che volessi tenere dalla parte dell’iniquità.
(…) e dopo tant’incomodi, posso pretendere anch’io d’andarmi a riposare. E poi… che non venisse anche curiosità a monsignore di saper tutta la storia, e mi toccasse a render conto dell’affare del matrimonio! Non ci mancherebbe altro. E se viene in visita anche alla mia parrocchia!… Oh! sarà quel che sarà; non vo’ confondermi prima del tempo: n’ho abbastanza de’ guai. Per ora vo a chiudermi in casa.
I Promessi Sposi, capitolo 24
Indirettamente don Abbondio viene descritto anche dalla buona donna, la moglie del sarto che la accompagna in lettiga. La donna riferisce a Lucia che si è resa conto della pochezza del suo curato:
(…) riprese la donna: “ e trovandosi al nostro paese anche il vostro curato (che ce n’è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme quattro ufizi generali), ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche lui in compagnia; ma è stato di poco aiuto. Già l’avevo sentito dire ch’era un uomo da poco; ma in quest’occasione, ho dovuto proprio vedere che è più impicciato che un pulcin nella stoppa. ”
Abbiamo un quadro ben dettagliato di don Abbondio, che non subisce alcun tipo di evoluzione nell’arco del romanzo, a differenza di Renzo che compie un percorso di formazione.
Possiamo dire che è un personaggio comico, protagonista di episodi in cui farsa e dramma si mescolano (vedi l’umorismo in don Abbondio di Pirandello).
Immagine di copertina: © Biblioteca Braidense. Bozze delle illustrazioni per l’edizione de “I Promessi sposi” del 1840 / n. 010 – A cura di Guido Mura e Michele Losacco 16-12-2003
Cap. I – don Rodrigo e don Abbondio
Articolo aggiornato il 4 Ottobre 2023 da eccoLecco