“Un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo”.
La figura dell’Innominato nei Promessi Sposi
Personaggio storico, complice di don Rodrigo
L’Innominato è un personaggio misterioso, tanto misterioso che Alessandro Manzoni non gli dà né nome, né cognome. Non si sa nulla di lui, da dove arrivi e chi sia.
E’ una figura inizialmente antagonista, che poi invece diventa il nodo cruciale di svolta perché ogni cosa volga al lieto fine.
Lo troviamo a metà romanzo, quando nel cap. XIX lo scrittore ce lo descrive dicendo che è “un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo” al quale don Rodrigo aveva chiesto soccorso per avere Lucia.
Innominato: personaggio storico
Questo misterioso Innominato ha però un’identità precisa, sebbene Manzoni non faccia il nome, ma “del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore.” Manzoni richiama gli autori Francesco Rivolta e Giuseppe Ripamonti dai quali ha tratto spunto per questo personaggio dei Promessi Sposi.
Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell’uomo, lo chiama “un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita“, e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest’uomo, quel personaggio. “Riferirò”, dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, “il caso d’un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse…” Da questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo avanti.
Capitolo 19 – I Promessi Sposi
Relativamente al castello in cui dimora, abbiamo ancora tracce di riferimento storico, e ritorna in tal modo l’evidenza del realismo storico manzoniano.
Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto. “Quella casa – cito ancora il Ripamonti, – era come un’officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate”. Oltre questa bella famiglia domestica, n’aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de’ due stati sul lembo de’ quali viveva, e pronti sempre a’ suoi ordini.
Capitolo 19 – I Promessi Sposi
Innominato: personaggio complice di don Rodrigo
Una figura di tale rilievo era gioco-forza necessaria per don Rodrigo, che si reca così al castello dell’Innominato (vedi riassunto capitolo 19).
Il lettore ancora non ha conosciuto direttamente questo personaggio, dobbiamo infatti aspettare l’incontro tra questi due oppressori, come figurano nel sistema dei personaggi. E come Manzoni fece per il signorotto di Lecco, descrivendo dapprima la sua dimora, il palazzotto di Don Rodrigo, così fa lo stesso per l’Innominato.
Il castello dell’Innominato
Ecco che “il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti” e per rimarcare la sua supremazia si aggiunge che “dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto“.
In questo luogo si decide il rapimento di Lucia, che coinvolge la monaca di Monza, amante di Egidio, “uno de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato“. (vedi riassunto capitolo 20)
Proprio da questo complotto ed azione negativa, nasce qualcosa di straordinario: l’umile Lucia, così piena di sofferenza e così credente, riesce a smuovere l’animo dell’Innominato.
La frase da lei pronunciata nei suoi confronti “vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha… un poò allargato il cuore. Dio gliene renderà merito. Compisca l’opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.” scatena nell’Innominato tante domande e “tutto gli appariva cambiato“.
Una notte tormentata, interiormente assediato e profondamente triste, terrorizzato dalla morte, quando “ecco, appunto sull’albeggiare, …, riconobbe uno scampanare a festa lontano”.
Informato dal suo bravo che il paese vicino era in festa per l’arrivo del Cardinal Borromeo, l’Innominato decide di andare a parlargli – “gli voglio parlare: a quattr’occhi gli voglio parlare. Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che… Sentirò cosa sa dir lui, quest’uomo!”
Dal buio delle tenebre dove la mente si incupisce, all’albeggiare e al rischiararsi dell’animo. Ecco che avviene così la conversione dell’Innominato e quindi Lucia viene liberata.
Innominato: descrizione fisica
Il narratore onnisciente ci presenta fisicamente l’Innominato nel capitolo 20 e ce lo dipinge come:
- grande
- bruno
- calvo
- pochi capelli bianchi
- volto rugoso
- 60 anni ma ne dimostra di più
- lineamenti duri
- occhi con guizzo sinistro e vivo
- forza di corpo e d’animo
Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de’ sessant’anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de’ lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d’animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine.
Capitolo 20 – I Promessi Sposi
Innominato: descrizione del personaggio
Manzoni ce lo definisce un”superuomo” e la sua figura è sempre associata alla notte, alla solitudine, al silenzio.
l’Innominato è un personaggio caratterizzato da una forte individualità, che pensa di realizzare la libertà mediante la ribellione clamorosa e violenta, impugnando ogni legge ed autorità.
Viene definito un “tiranno straordinario“, del cui nome non si fa menzione, creando quell’alone di mistero misto al fascino, tanto che il narratore ci dice che “il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso”.
Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra.
Nel fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto.
Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. “Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze per il governatore”.
Nell’assenza, non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que’ suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, “in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste”. Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. “Anche alcuni principi esteri, – dice, – si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini”.
(…)
Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, avevan dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli, la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella prova. E neppur col badare a’ fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro. La fama de’ tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in quel piccolo tratto di paese dov’erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c’era ragione che la gente s’occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s’aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicari, contribuiva anch’esso a tener viva per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, uno de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato.
I Promessi Sposi, cap. XIX
Immagine di copertina: © Biblioteca Braidense. Bozze delle illustrazioni per l’edizione de “I Promessi sposi” del 1840 / n. 223
Articolo aggiornato il 4 Ottobre 2023 da eccoLecco