La processione di San Carlo per scongiurare la peste
Descrizione di Manzoni nel cap. 32 dei Promessi Sposi
Nel capitolo 32 dei Promessi Sposi Alessandro Manzoni ci descrive la processione con le reliquie corporee di San Carlo per le vie di Milano: processione chiesta dai decurioni al cardinal Federigo Borromeo.
La descrizione si attiene a quella del Ripamonti, come espressamente indicato dall’autore stesso – “(dice il Ripamoni, da cui principalmente prendiamo questa descrizione)” -, e ritroviamo il realismo storico che Manzoni ha messo come perno al suo romanzo.
In questo articolo desideriamo segnalarvi quanto scrive effettivamente il Ripamonti e cosa aveva scritto lo stesso Manzoni nella prima versione del romanzo, mai pubblicata, il Fermo e Lucia, relativamente all’evento della processione con il corpo di San Carlo.
Scrive il Ripamonti:
SCOPRI – VISITA ISTRUZIONE LUOGHI MANZONIANI format eccoLecco«Il corpo di S. Carlo, o piuttosto le reliquie di esso, sopravanzate alla voracità del tempo, che distrugge fino i più duri metalli, giaceva entro un’arca coperta d’un drappo di seta bianca con ai lati finestrelle di cristallo, traverso le quali intravedevasi la consunta faccia del Santo, più venerabile agli occhi dei divoti, che se fosse stata intatta. Portavano l’arca i canonici della metropolitana, preceduti da una parte del clero e del popolo, seguiti dal restante; adorni delle loro insegne venivano i sacerdoti, i magistrati, i più cospicui della città, con doppieri accesi; molti a pie’ scalzi e colle vesti strascicanti quai penitenti, palesavano la costernazione dell’animo. Però gli sguardi d’ognuno, non distratti dai circostanti oggetti, rivolgevansi ansiosi alla calva e mitrata testa di S. Carlo, alla bocca semiaperta, ai pochi denti, che più la sformavano, alle livide e vuote occhiaje, che in tal guisa la morte, coll’ineluttabile sua possa, aveva guasto il venerabile capo del santo Arcivescovo. Pur nondimeno rimanevano alcune tracce indicanti la benevola fisionomia del Pastore quale la tramandarono ai posteri gli antichi simulacri.
Ad esso erano rivolte le preci di mille labbra, che osavano quasi per diritto implorare che di nuovo difendesse colla sua intercessione, appo Iddio, il popolo già da lui altra volta salvato. Il guardavano ed oravano, e da quel teschio inanimato e corroso, volgendo le preci e la speranza al vivente capo della Chiesa milanese, ad alta voce supplicavano il cardinale arcivescovo Borromeo, il quale seguiva da vicino l’arca, che offerisse i pubblici voti al cugino, cui egli andava dappresso per parentela, per dignità, per meriti e anche per il corpo» (De peste, cit.).
Il Fermo e Lucia seguiva la fonte nei suoi macabri risvolti, anzi aggiungendo osservazioni sulla consunzione, accanto al cadavere, del vivo arcivescovo, rappresentato in un intenso stato di sofferenza penitenziale.
«Venivano quindi con ceri le confraternite vestite di fogge varie di colori e di forme, poi le arti distinte, e precedute ognuna dal suo coniatane; poi le varie congregazioni dei frati, neri, bigi, e bianchi, poi il clero secolare, distinto in parrocchie e in capitoli, con varie divise; quindi fra lo splendore di folti ceri, e tra un nembo incessante d’incenso, portata da quattro canonici, l’arca dove giacevano le reliquie invocate di San Carlo. Dai cristalli che chiudevano i lati traspariva il corpo coperto di splendidi abiti pontificali, e il teschio mitrato, in cui fra lo squallore delle vuote occhiaje, del ringhio spolpato, delle forme mutilate, della cute abbronzata, aggrinzata su l’ossa, traluceva ancora qualche vestigio della faccia antica, esplorato con angosciosa venerazione dai vecchj che avevano veduto vivo il santo pastore. Gli altri cercavano di raffigurare in quelle reliquie una immane più presente e più reale di quella feccia che dalla infanzia avevano osservata e venerata nelle imitazioni dell’arte. Dietro le spoglie del morto pastore, veniva il suo cugino ed imitatore Federigo, consunto egli pure pallido di vecchiezza, di penitenza, e di accoramento, in quell’aspetto dico compunzione che nessuna ipocrisia può contraffare, poiché è l’effetto involontario d’un sentimento che non conosce i modi pei quali si esprime. Le affezioni temporali pel parente, appena si in quell’animo, assorbite dalla riverenza del santo, e dalla invocazione all’intercessore; il nome comune, tutte le memorie dei tempi vissuti insieme, si perdevano nella fede: non en più che un vescovo che pregava l’uomo vivente presso Dio perché pregasse pel suo popolo. Colui che aveva cercato di stornare quella cerimonia, vi portava ora forse l’animo il più fervente: le ragioni che l’avevano renduto ritroso ad approvare una risoluzione imprudente non venivano ora a con ricordi superbi e dispettosi la sua mente dall’intento ragionevole e santo di quella risoluzione: il culto, e la preghiera.”
Articolo aggiornato il 4 Ottobre 2023 da eccoLecco