Sono immerso nel mio romanzo, il cui argomento è collocato in Lombardia nell’epoca dal 1628 al 1631.
Il realismo storico di Manzoni
Alessandro Manzoni nelle tragedie ci aveva mostrato già il conflitto tra storia e morale, ma solo nel romanzo trova la sua soluzione realistica.
Il passaggio al genere più popolare del romanzo storico è in funzione di una riduzione concreta e quotidiana della materia e di un bisogno di esplorazione e di analisi che solo la prosa narrativa poteva garantire a differenza delle forme aristocratiche della tragedia.
Manzoni era mosso dalla volontà di rivolgersi ad un pubblico più ampio, puntando su un sentimento religioso più democratico che portava alla ribalta della scena narrativa il mondo degli “umili” e degli “oppressi”, così come raccontare la serie degli eventi solitamente ignorati dalle cronache ufficiali della storia.
Ed è proprio il romanzo la forma che secondo Manzoni appare più consona per rendere conto della vita di una società intera attraverso una “favola”, che si muove sul piano autonomo dell’invenzione, ma al contempo porta con sé l’impronta della verità storica.
Manzoni e il carteggio con l’amico Fauriel
Gli anni trascorsi a Parigi (1805-1810) furono per Manzoni decisivi: qui frequenta la cerchia degli “ideologi” tra i quali c’è Claude Fauriel, che diventa poi suo grande amico.
Dal 1806 al 1840 i due si scambiano ben 102 lettere, tra queste alcune sono davvero importanti e ci fanno capire cosa aveva in testa Manzoni in merito:
- allo stile tra poesia e prosa
- alla difficoltà di avere una lingua italiana che fosse funzionale a scrivere ciò che aveva in mente lo scrittore
- alla rappresentazione del vero, della storia intrecciate alle vicende umane.
Ricordiamo che dal novembre 1820 fino alla sua pubblicazione definitiva nel 1822 Manzoni lavora alla stesura dell’Adelchi, tragedia che rappresenta la caduta del regno longobardo per mano di Carlo Magno.
Nella primavera del 1821 inizia a scrivere il Fermo e Lucia. Per approfondimenti sulle diverse edizioni vedi I Promessi Sposi: genesi di un romanzo.
In questi anni dove la poesia si mescola alla prosa Manzoni si interroga e parla con l’amico francese Fauriel riguardo i romanzi storici che li concepisce come “la rappresentazione di una concezione determinata della società, per mezzo di fatti e di caratteri così simili al vero da poterli ritenere una storia reale appena scoperta. Quando vi sono inseriti avvenimenti e personaggi storici, credo che sia necessario rappresentarli nella maniera più rigorosamente storica“.
I canoni fondamentali della concezione manzoniana del romanzo sono principalmente due:
- analisi rigorosamente storica e dunque realistica
- prospettiva che, abbracciando una “condizione determinata della società“, non si ferma alla registrazione dei fatti illustri
Manzoni, in conformità con la scelta del genere letterario, rifiuta la figura del protagonista eroe e riduce la coscienza del personaggio al piano della comunità.
Quella “determinata società” è costituita da personaggi sconosciuti e masse anonime come oggetto del racconto, superando ogni suggestione eroica e sottraendo, per quanto è possibile, dati e valori oggettivi agli arbitri della finzione letteraria.
- Lettera del 29 gennaio 1821
Manzoni, che finora ha sempre scritte tragedie, quindi utilizzo lo stile poetico, ora si trova in difficoltà nella stesura di quello che sarà dapprima il Fermo e Lucia e poi I Promessi Sposi.
Può la poesia rappresentare il realismo storico?Vorrei proprio conoscere il vostro parere circa questo sistema di concedersi l’invenzione dei fatti per giungere a rappresentare nel loro sviluppo un complesso di costumi storici. A me, personalmente, sembra una felicissima risorsa per quella benedetta poesia, che si ostina a non voler morire, nonostante le vostre previsioni in contrario. Alla poesia penso sia interdetto il racconto storico vero e proprio, perché la relazione semplice e nuda dei fatti conserva, per ragioni di curiosità spiegabilissime negli uomini, un fascino così immediato, che li disamora di tutte le invenzioni poetiche che vi si volessero mescolare, e anzi le fa apparire ingenue e puerili. Ma radunare i lineamenti caratteristici di un’epoca della società e svolgerli nel giro di un’azione, profittare della storia senza pretendere di farle concorrenza, di fare ciò che essa da sola può fare senz’altro meglio: questa a me sembra la zona d’intervento che può legittimamente riservarsi alla poesia; quella in cui anzi a lei sola è dato di addentrarsi.
- Lettera del 3 novembre 1821 relativamente ai romanzi storici e al problema della lingua italiana
Alessandro Manzoni sta scrivendo il Fermo e Lucia, quindi siamo ancora lontani dall’edizione definitiva dei Promessi Sposi che si studia a scuola, ovvero l’edizione del 1840 detta Quarantana, edizione al quale l’autore ha lavorato per lungo tempo, passando dall’edizione Ventisettana, alla quale segue la famosa “risciacquatura dei panni in Arno”.
Il tormento di Manzoni per la povertà della lingua italiana, se di lingua italiana si può parlare, si chiede – Che cosa significa italiano in tal senso? Secondo certuni [italiano] è ciò che è consegnato nella Crusca, secondo altri ciò che si capisce in tutta Italia, ovvero dalle classi colte; la maggior parte non applica a questa parola alcuna idea determinata. Io vi esprimo qui in maniera vaga e molto incompleta un sentimento reale e doloroso -.
Per indicarvi brevemente la mia idea principale sui romanzi storici e mettervi così sulla via per rettificarla, Vi dirò che li concepisco come la rappresentazione di uno stato determinato della società per mezzo di fatti e di caratteri così simili alla realtà che li si possa ritenere una storia veritiera appena scoperta. Quando vi si mescolano avvenimenti e personaggi storici, credo che bisogni rappresentarli nella maniera più strettamente storica; così, ad es., Riccardo Cuor-di-Leone mi sembra difettoso nell’Ivanhoe.
Quanto alle difficoltà che la lingua italiana oppone alla trattazione di questi soggetti, esse, ne convengo, sono reali e grandi; ma penso ch’esse derivino da una circostanza generale, che sfortunatamente si applica o ogni tipo di composizione. Questo fatto (bado che nessuno mi ascolti) questo triste fatto è, a mio avviso, la povertà della lingua italiana. Quando un francese cerca di rendere al meglio le sue idee, guardate che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che è stata sempre parlata, in questa lingua che si fa da tanto tempo e giorno dopo giorno, in tanti libri, in tanta conversazione, in tanti dibattiti di ogni genere. Con tutto ciò, lo scrittore dispone di una regola per la scelta delle sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue abitudini che gli danno un sentimento pressoché sicuro della conformità del suo stile allo spirito generale della sua lingua; non ha da consultare il dizionario per sapere se una parola susciterà imbarazzo o se funzionerà: si domanda se è francese o no, ed è più o meno certo della sua risposta. Questa ricchezza di giri e questa abitudine a utilizzarli gli dà ancora il modo di inventarne a proprio uso con una certa sicurezza, giacché l’analogia è un campo vasto e fertile in proporzione del positivo della lingua: così egli può restituire quel che v’è di originale e di nuovo nelle sue idee per mezzo di formule che sono ancora molto vicine all’uso comune, e può marcare con sufficiente precisione il limite fra l’ardimento e la stravaganza. Di contro a ciò, immaginatevi un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che (anche se sia nato nel paese privilegiato) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non si discute a voce di grandi temi, una lingua in cui sono rare e a distanza le opere relative alle scienze morali, una lingua che (se vogliamo credere a coloro che ne parlano di più) è stata corrotta e sfigurata proprio dagli scrittori che hanno trattato le materie più importanti negli ultimi tempi; sicché, per le buone idee moderne, non vi sarebbe un tipo generale di espressione in tutto quel che si è fatto fino a oggi in Italia.
Manca completamente a questo povero scrittore questo sentimento – per così dire – di comunione col suo lettore, questa certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
Si chieda se la frase appena scritta sia italiana: come si potrà dare una risposta sicura a una domanda che non è precisa? Che cosa significa italiano in tal senso? Secondo certuni [italiano] è ciò che è consegnato nella Crusca, secondo altri ciò che si capisce in tutta Italia, ovvero dalle classi colte; la maggior parte non applica a questa parola alcuna idea determinata. Io vi esprimo qui in maniera vaga e molto incompleta un sentimento reale e doloroso. La conoscenza che Voi avete della nostra lingua vi suggerirà subito quel che manca alle mie idee, ma temo che essa non vi indurrà a contestarne il nocciolo. Nel rigore feroce e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio avviso un sentimento generale del tutto ragionevole: è il bisogno di una certa fissità, di una lingua convenuta fra coloro che scrivono e coloro che leggono. Penso che abbiano solo il torto di credere che tutta una lingua si trovi nella Crusca e negli scrittori classici e che, quando pure vi fosse, avrebbero torto anche di pretendere che la vi si cerchi, che s’impari, che ci se ne serva. Giacché è assolutamente impossibile che dai ricordi della lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante di tutto il materiale di una lingua. Ditemi che cosa debba fare oggi un italiano che, non sapendo fare altro, voglia scrivere. Quanto a me, disperando di trovare una regola costante e speciale per far bene questo mestiere, credo tuttavia che vi sia anche per noi una perfezione approssimativa di stile, e che per trasferirla il più possibile nei propri scritti bisogni pensare molto a quel che si dirà, aver letto molto gli italiani detti classici e gli scrittori di altre lingue, soprattutto francesi, aver parlato di temi importanti con i propri concittadini, e che con ciò si possa acquisire una certa prontezza nel trovare nella lingua cosiddetta ‘buona’ quel che essa può fornire ai nostri bisogni attuali, una certa attitudine a estenderla con l’analogia, e un certo qual tatto per estrarre dalla lingua francese quello che può essere mescolato alla nostra senza urtare con una forte dissonanza, e senza aggiungervi oscurità. Così, con un lavoro più penoso e ostinato si farà meno male possibile quel che voi fate quasi senza fatica. Concordo con Voi che scrivere un romanzo in italiano sia una delle cose più difficili, ma trovo questa difficoltà in altri soggetti, sebbene a un grado inferiore; e con la conoscenza non completa ma sicura che ho della imperfezione dell’operaio, sento anche in una maniera pressoché sicura che ve ne ha molta nella materia.
- Lettera del 29 maggio 1822
Alessandro Manzoni racconta a Fauriel in quale periodo storico ha deciso di collocare l’argomento del suo romanzo, “in Lombardia nell’epoca dal 1628 al 1631” e di tale periodo ne racconta le caratteristiche storiche dove vige l”anarchia feudale” e l'”anarchia popolare“, dove ci sono “classi con interessi e massime opposte” che ritroviamo perfettamente nei Promessi Sposi. Per approfondire leggi La società del Seicento nei Promessi Sposi.
La volontà dello scrittore è quella di raccontare gli avvenimenti cercando di immedesimarsi nello spirito di quel tempo intrecciando la storia al “modo di agire degli uomini“.Sappiate dunque che sono immerso nel mio romanzo, il cui argomento è collocato in Lombardia nell’epoca dal 1628 al 1631.
Le memorie che ci rimangono di quest’epoca presentano e fanno supporre una situazione della società molto singolare: il governo più arbitrario combinato con l’anarchia feudale e l’anarchia popolare: una legislazione stupefacente per quello che prescrive e per quello che fa indovinare, o che esplicitamente rivela: una ignoranza profonda, feroce e pretensiosa: classi con interessi e massime opposte, qualche particolare poco noto ma consegnato in scritti assai degni di fede e che mostrano il grado raggiunto da queste situazioni; infine una peste che ha dato il via alla scelleratezza più consumata e più sfrontata, ai pregiudizi più assurdi e alle virtù più toccanti, ecc. ecc. … ecco di che riempire un canovaccio, o piuttosto ecco dei materiali che forse non faranno altro che svelare la scarsa abilità di colui che vuole usufruirli. Ma se si deve perire, si perisca. Oso lusingarmi (ho imparato questa frase dal mio sarto a Parigi) oso lusingarmi di evitare almeno la taccia di imitatore; a questo scopo faccio quel che posso per immedesimarmi nello spirito del tempo che devo descrivere, per viverci dentro; è stato un tempo così bizzarro che sarà proprio colpa mia se questo aspetto non si comunicherà alla descrizione. Quanto al procedere degli avvenimenti e all’intreccio, credo che il mezzo migliore per non fare come gli altri sia di applicarsi a considerare nella realtà il modo di agire degli uomini, e di considerarlo soprattutto in ciò che esso ha di opposto allo spirito romanzesco. In tutti i romanzi che ho letto mi sembra di scorgere un impegno per stabilire rapporti interessanti e inattesi fra i diversi personaggi, per riportarli insieme sulla scena, per trovare avvenimenti che influiscano a un tempo e in modi diversi sui destini di tutti, per trovare infine una unità artificiale che nella vita reale non si verifica. So che questa unità piace al lettore, ma penso che gli piaccia per una vecchia abitudine. So che è considerata un merito in alcune opere che ne traggono un vantaggio reale e di prim’ordine, ma sono del parere che un giorno sarà oggetto di critica; e si citerà questo modo di consertare gli avvenimenti come un esempio dell’impero che la consuetudine esercita sugli spiriti più liberi e più alti, o dei sacrifici che vengono fatti al gusto imperante.
Immagine di copertina: ritratto di Manzoni, Anonimo inglese, Alessandro Manzoni nel 1805 – Claude Fauriel, Castello di Bignon, Francia.
Articolo aggiornato il 8 Giugno 2022 da eccoLecco