I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 13
Alessandro Manzoni, in questo capitolo tredicesimo de’ I Promessi Sposi prosegue il racconto della situazione milanese delle rivolta del pane in cui si trova interessato e coinvolto Renzo Tramaglino.
Alla fine del capitolo 12 lo lasciamo che preso dalla curiosità, anziché recarsi dal Padre Bonaventura, segue la folla che arriva sotto il palazzo del Vicario urlante. Leggi il riassunto capitolo 12 Promessi Sposi.
Si tratta di un capitolo interlocutorio, non riveste particolare rilevanza ai fini della storia, delle sue vicissitudini o altro. Ci apre uno spaccato storico e psicologico al contempo: storico perché si capisce bene come Milano sia sotto la dominazione spagnola, psicologico perché l’autore ci rappresenta i due lati opposti dello stato d’animo della folla.
Riassunto dei fatti del capitolo 13 Promessi Sposi
Vediamo cosa succede dal punto di vista dello svolgimento dei fatti.
La folla arriva sotto le finestre del palazzo del vicario, che sta facendo un riposino dopo “un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco“, i suoi servitori “attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi“. Sprangano la porta, chiudono le finestre, mettono puntelli e corrono ad avvisare il vicario, mentre la gente di fuori urla -“Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!“-.
Ed ecco che Manzoni ci raffigura il vicario, chiuso all’interno del suo palazzo, rifugiatosi in soffitta, che da un pertugio guarda “ansiosamente nella strada” vedendola “piena zeppa di furibondi” e sentendo le voci che chiedono la sua morte.
“Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. (…) Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore s’affievolisse, se il tumulto s’acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sè, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta…“.
E Renzo dove si trova? Cosa sta facendo? Cosa pensa?
Questa peripezia di Renzo a Milano è emblematica della sua “ricerca”, a cui è sottoposto l’ungo l’intero arco narrativo del romanzo. Possiamo dire che si tratti di una sorta di educazione. Ma per questa lettura rimandiamo all’articolo “Renzo e il suo Bildungsroman”.
“Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi“.
In quell'”accozzaglia di gente varia d’età e di sesso” si trova anche un “vecchio mal vissuto” con occhi infuocati e affossati, che ricordano gli “occhi di bragia” di dantesca memoria riferiti a Caronte. Alle grida di costui che voleva appendere al portone il vicario morte, Renzo reagisce inorridito e grida “vergogna!“ ed ancora “Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!”
Il vecchietto allora insinua che Renzo sia un “servitore del vicario. Una spia“.
Nella folla si fa largo gente che porta una scala e si genera confusione nella confusione. E proprio grazie a questa confusione Renzo si allontana da quel luogo, vuole uscire dal tumulto ed andare davvero da Padre Bonaventura.
Nel mentre Renzo sgomitando si allontana ecco che succede qualcosa di nuovo: “un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: “Ferrer! Ferrer! ” Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega; chi benedice, chi bestemmia.“.
Arriva il cancelliere Ferrer in carrozza. Manzoni ci dice che “L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. (…) Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario“.
La folla acclama Ferrer e lo stesso Renzo decide di andargli incontro: tra spinte e sgomitate “da alpigiano” riesce a farsi largo ed “arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza“.
“Il vecchio Ferrer presentava ora all’uno, ora all’altro sportello, un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso” e rincuora la folla dicendo di essere venuto proprio per condurre in prigione il viario, “per dargli il giusto castigo che si merita“.
Renzo nel vedere tutto questo ripone il suo pensiero di allontanarsi e decide “d’aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto l’intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo de’ meno attivi“.
Ferrer dispensa saluti e sorrisi alla gente, in segno di ringraziamento, e tanti sorrisi sono anche per Renzo. Qui Manzoni esprime un giudizio su Renzo, infatti ci dice che ” per verità” merita quei sorrisi, perché Renzo sta servendo il cancelliere nel modo migliore che anche il più bravo dei suoi segretari avesse mai potuto fare. Ed aggiunge che “al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer“.
La folla fa largo a Ferrer e la sua carrozza raggiunge la porta del palazzo del vicario: “la folla, da una parte e dall’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: “ pane e giustizia”; e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle“.
Ferrer si fa aprire chiedendo di fare presto e mantenere la gente fuori, intanto chiede dove si trova il vicario: “Presto, presto, (…) dov’è questo benedett’uomo?”.
Ed eccolo il vicario: “scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle gote; e corse, come potè, verso Ferrer, dicendo: “ sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c’è gente che mi vuol morto”.
Ferrer prende per mano il vicario e lo conduce verso la porta, facendogli coraggio. La porta si apre: esce Ferrer e il vicario dietro “rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma“. Il vicario sale in carrozza e subito dopo Ferrer.
La folla indovina ciò che è accaduto e manda “un urlo d’applausi e d’imprecazioni“.
Ferrer si raccomanda che il vicaria stia “ricantucciato nel fondo, e non si facesse vedere“. La carrozza così se ne va e si allontana dalla folla.
Il vicario nel mentre dice di rassegnare la sua carica nella mani del cancellerie, per andare a fare l’eremita lontano da quella gente; il cancelliere gli risponde che il vicario farà ciò che vorrà sua maestà.
Ma quale sia la fine del vicario non ci è dato sapere, infatti lo stesso Manzoni termina il capitolo 13 dicendoci “che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi”.
Aspetto psicologico della folla nel capitolo 13 Promessi Sposi
La lettura psicologica che Manzoni ci offre legata al fenomeno della massa presa in tumulti popolari, la troviamo subito dopo averci detto che Ferrer è arrivato.
Riportiamo l’analisi testuale dello scrittore, perché è interessante ripartire dalle sue parole per capire come individui due tipologie differenti di uomini nella folla interessata dai tumulti:
- gli uomini animati dagli istinti ed intenti peggiori, a causa della passione o del fanatismo, che promuovono le azioni più empie
- gli uomini che, con stessa passione, si adoperano per il bene
Entrambi sono “attori, spettatori, strumenti, ostacoli“, sono “parti attive nemiche“, che combattono per entrare nella folla, “in quel corpaccio” e lo fanno muovere, gli danno forma e movimento.
Vediamo come bene lo descrive Manzoni:
Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse nè fine nè misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.
Articolo aggiornato il 8 Giugno 2022 da eccoLecco