I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 20
L’ultimo capoverso del capitolo diciannovesimo ci mostra don Rodrigo, con il Griso e quattri bravi, che si dirige al Castello dell’Innominato (vedi riassunto capitolo 19 Promessi Sposi).
Il capitolo 20 inizia con la descrizione del castello dell’Innominato ovvero di un castello posto in cima ad una “valle angusta e deprimente, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti“, “un pendio piuttosto erto (…) a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati“.
Il torrente a cui si riferisce Manzoni è il Bione, indirettamente ricordato nel capitolo 1, mentre i due stati sono quelli del Ducato di Milano e della Repubblica di Venezia. Sappiamo che anche il fiume Adda rappresenta geograficamente il confine tra i due stati, lo abbiamo visto nel capitolo 17, quando lascia Gorgonzola per raggiungere il territorio bergamasco.
Il paesaggio è descritto secondo il gusto per l’orrido naturale, tipico del romanticismo ed è congrua alla figura del personaggio che abita il castello.
Troviamo il parallelismo della descrizione del luogo per rimandare al soggetto, come era successo per don Rodrigo.
Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.
(…) Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. (…)
Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all’imboccatura dell’erto e tortuoso sentiero.
Don Rodrigo arriva ai piedi del poggio dove si trova una taverna “col nome della Malanotte“: al sentire il cavalcare in prossimità, “un ragazzaccio, armato come un saracino” esce per verificare chi fosse e riconosce “un amico del suo padrone” e lo saluta “rispettosamente“.
Don Rodrigo, il Griso ed i suoi quattro bravi, di cui Manzoni ci dice il nome, Tiradritto – Montanarolo – Tanabuso – Squinternotto, chiedono “se il signore si trovasse al castello“; ricevuta risposta affermativa, lasciano i cavalli alla taverna e si dirigono al castello a piedi.
Lungo il percorso un “bravaccio dell’innominato” lo raggiunge e riconoscendolo lo introduce direttamente nel castello.
Don Rodrigo viene fatto passare “per un andirivieni di corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane, e in ognuna delle quali c’era di guardia qualche bravo; e, dopo avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l’innominato“.
Don Rodrigo dice di venire “per consiglio e per aiuto“, aggiungendo che si trova “in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi” e gli espone “il suo scellerato imbroglio“.
L’innominato è già a conoscenza di qualcosa, ma lo ascolta comunque con attenzione e curiosità. Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, esagera le difficoltà dell’impresa.
A questo, l’innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l’impresa sopra di sé. Prese l’appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò don Rodrigo, dicendo: “tra poco avrete da me l’avviso di quel che dovrete fare.”
Il narratore ci informa che Egidio, “che abitava accanto al monastero dove la povera Lucia stava ricoverata“, è uno “de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato“.
Ecco perché l’Innominato ha acconsentito subito a don Rodrigo, pentendosi però della parola spesa appena rimasto solo.
Inizia da qui l’inquietudine dell’innominato che troviamo nei capitoli successivi fino alla sua conversione.
Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire.
Invidiando (giacchè non poteva annientarli nè dimenticarli) que’ tempi in cui era solito commettere l’iniquità senza rimorso, senz’altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer sé stesso ch’era ancor quello.
Così in quest’occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l’avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio, uno de’ più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio.
L’Innominato ordina al Nibbio di montare subito a cavallo e dirigersi a Monza per informare Egidio “dell’impegno contratto” e per chiedere il suo aiuto per portarlo a compimento.
Il Nibbio va e torna presto con la risposta affermativa di Egidio: l’impresa è “facile e sicura“, serve una carrozza “con due o tre bravi” ben travestiti. A tutto il resto ci pensa lui.
Allora l’Innominato dà “ordine in fretta” al Nibbio che si predisponga e faccio tutto quanto richiesto da Egidio.
Egidio certamente da solo non può mettere in atto “l’orribile servizio che gli era stato chiesto“, ma “l’atroce giovine” ha “un mezzo noto solo a lui“.
Questo mezzo è Gertrude, la monaca di Monza, che più volte ha dato retta ad Egidio avviluppandola così in un circolo vizioso.
La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorchè la sola ch’era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Sebbene Gertrude resta per un attimo basita della richiesta rivoltagli da Egidio, alla fine cede ed obbedisce.
Chiama Lucia e le dice che deve chiederle un servizio e solo lei può farlo, perché si fida solo di lei. Le dice che ha bisogno di parlare subito con il padre cappuccino che l’ha condotta al convento, ma nessuno deve sapere che è stata lei a mandarla.
Lucia è “atterrita d’una tale richiesta” ma con soggezione e senza nascondere meraviglia palesa le ragioni della pericolosità del servizio: “senza la madre, senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto“.
Ma la monaca, “ammaestrata a una scola infernale” (quella di Egidio), mostra ella stessa meraviglia e anche dispiacere nel vedere la ritrosia di Lucia, le dice che le scuse addotte sono vane: alla fine si tratta solo di quattro passi, la strada non l’avrebbe sbagliata certamente.
Al che Lucia chiede cosa deve fare.
La monaca le spiega la strada verso il convento dei cappuccini e le dice di farsi chiamare subito il padre guardiano dicendogli che la monaca lo aspetta.
Lucia si preoccupa della fattoressa e del fatto che dovrà dire una bugia: è “sbalordita più che convinta, e soprattutto commossa più che mai“, ma alla fine si decide ad andare invocando l’aiuto di Dio.
La monaca ha un attimo di esitazione e chiama Lucia mentre lei sta varcando la soglia del convento, ma subito si ravvede e le spiega nuovamente la strada da tenere. Lucia parte.
Passò inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi, rasente al muro; trovò, con l’indicazioni avute e con le proprie rimembranze, la porta del borgo, n’uscì, andò tutta raccolta e un po’ tremante, per la strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e la riconobbe.
Lucia riconosce la via indicatale dalla monaca e vi si addentra, ma vedendola solitaria inizia a crescerle la paura e così allunga il passo.
Poco dopo si rincuora perché vede una carrozza ferma con lo sportello aperto e due viaggiatori che si guardavano in giro. Quando Lucia si avvicina i due le chiedono informazioni sulla stra per Monza. Lucia si volta per mostrare la giusta direzione e i due l’afferrano all’improvviso.
Lucia urla, ma “il malandrino” la mette nella carrozza con la forza ed un altro le mette un fazzoletto alla bocca per farla tacere.
Il Nibbio entra anche lui in carrozza e quindi, chiuso lo sportello, si parte di gran carriera.
I tre bravi continuano a ripeterle di stare zitta e di non avere paura, che nessuno vuole farle del male. Ma Lucia dopo una lotta angosciosa, sviene.
Dopo qualche momento d’una lotta così angosciosa, parve che s’acquietasse; allentò le braccia, lasciò cader la testa all’indietro, alzò a stento le palpebre, tenendo l’occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostruoso: le fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s’abbandonò, e svenne.
La carrozza prosegue il suo cammino “sempre andando di corsa” e Lucia rinviene. Implora che venga lasciata andare e chiede dove la stanno portando.
I bravi le ripetono in continuazione di non avere paura, di stare quieta. Lucia tenta di buttarsi fuori dallo sportello all’improvviso, ma capisce che è inutile ed allora inizia a pregare con la testa bassa e le gote rigate dalle lacrime, con le mani giunte davanti alle labbra, implorando la Vergine.
“Accorata, affannata, atterrita” Lucia mette le mani a croce sul petto e con la corona inizia a recitare il rosario “con più fede e più affetto” come mai aveva ancora fatto in vita sua ed implora misericordia.
L’Innominato la sta aspettando “con un’inquietudine, con una sospension d’animo insolita” e “sente “come un ribrezzo, direi quasi un terrore“: così ci dice il narratore.
Guardando fuori dalla finestra del suo castello intravede la carrozza e il suo cuore inizia a battere più forte.
Gli balena in testa di chiamare uno dei suoi bravi per andare incontro alla carrozza e dire al Nibbio di dirigersi direttamente da don Rodrigo, ma un subitaneo “no” nella mente fa svanire questo disegno. Decide allora di chiamare una sua vecchia donna, che è nata in questo castello da un antico custode e da sempre vive lì.
Chiede alla donna che venga subito allestita una portantina chiusa sulla quale deve lei stessa salire ed andare alla taverna Malanotte.
Qui avrebbe aspettato la carrozza che portava una giovine. Una volta arrivata la carrozza deve dire al Nibbio che la giovine salga sulla portantina e vada subito dall’Innominato.
Non deve dire alla giovine dove la stanno portando ma deve infonderle coraggio.
La donna parte. L’innominato continua a guardare la carrozza, che ai suoi occhi diviene sempre più grande. Il sole sta tramontando e l’Innominato decide di chiudere le finestre ed inizia a camminare avanti e indietro per la stanza.
Articolo aggiornato il 9 Giugno 2022 da eccoLecco