I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 31
Ci troviamo nel pieno della peste e nel capitolo XXX abbiamo visto Agnese, don Abbondio e Perpetua far ritorno a casa dal castello dell’Innominato.
Al loro paese e nelle loro case trovano l’odore della pestilenza ed il saccheggio.
E così sulla scia di questo quadro, Alessandro Manzoni, nella sua veste di narratore onnisciente, ci racconta la peste del 1630 che imperversa nel territorio lombardo.
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.
Il narratore fa riferimento alle fonti storiche per raccontare questa calamità, sebbene non vi sia alcun scritto del Seicento che racconti in maniera dettagliata la peste.
Troviamo il realismo storico che si intreccia con la invenzione narrativa.
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatre anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo.
Dalle peste che afflisse Milano nel 1576 al morbo del 1630, di cui il protofisico Ludovico Settala, capo della commissione superiore della Sanità, riferisce espressamente nel tribunale della sanità in data 20 ottobre 1630, dicendo che “nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco) era scoppiato indubitabilmente il contagio“.
Medesimi avvisi riguardavano Lecco e Bellano, la Valsassina, “il territorio di Lecco, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda“.
La notizia delle morti inizialmente non viene presa sul serio, ma quando i delegati inviati dal tribunale, il 14 novembre, riferiscono in merito alla situazione del “male già tanto avanzato e diffuso” al governatore (Ambrogio Spinola, mandato a Milano per sostituire don Gonzalo Fernandez de Cordoba), quest’ultimo prova grande dispiacere e risentimento per il fatto, ma deve pensare alla guerra e dopo qualche giorno, il 18 novembre, emana una grida nella quale ordina che siano indette feste pubbliche per la nascita del primogenito del re Filippo IV, senza curarsi delle notizie ricevute.
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza.
Infatti non è stato solerte nel redigere le grida per le tessere sanitarie (“bullette”): la decisione viene presa il 30 di ottobre ma solo il 23 novembre viene redatta e il 29 pubblicata.
La peste è già entrata a Milano. Chi la portò?
Ce lo dicono i cronisti del tempo: Tadino e Ripamonti.
Entrambi ci dicono che sia stato “un soldato italiano al servizio di Spagna“, ma poi discordano su altre informazioni come il nome e la data in cui portano la peste in città.
Infatti secondo il:
- Tadino è un certo “Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco” e la data è il 22 ottobre
- Ripamonti è “un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna” e la data è il 22 novembre
Chiunque esso sia il narratore ci dice che si tratta di un “fante sventurato e portator di sventura” che porta con sé un fagotto di vesti comprate o rubate ai Lanzichenecchi e che si ferma presso la casa di suoi parenti a Porta Orientale.
Appena arrivato si ammala e viene portato all’ospedale dove muore dopo 4 giorni.
Il Tribunale di Sanità ordina che la casa presso cui risiedeva venisse segregata, gli abiti e le suppellettili bruciate.
Alcune persone che lo hanno assistito si ammalano e muoiono anch’esse.
Ormai il morbo serpeggia lentamente in città per tutto il 1629 e nei primi mesi del 1630, ma i decessi sono in numero così esiguo che nel pensiero della gente si crea “quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste“.
Gli stessi medici attribuiscono ai decessi malattie comuni, facendo così eco alle voci del popolo.
La paura di finire al Lazzaretto aguzza l’ingegno della gente: la mancata denuncia, la corruzione dei becchini e dei subalterni del tribunale.
In questo modo il morbo si espande sempre di più. Come arginare il contagio?
Il Tribunale di Sanità ordina di bruciare cose e sequestrare case, manda la gente al lazzaretto scatenando l’ira dei milanesi contro i magistrati e contro due medici in particolare: il Tadino e il Settala (figlio del protofisico). Questi, camminando per la strada, vengono assaliti da male parole e anche sassi.
Lo stesso atteggiamento non viene risparmiato neppure per l’ottuagenario Lodovico Settala che un giorno, mentre si reca in portantina a visitare degli ammalati, viene accerchiato da una folla inferocita che lo addita essere il principale scatenatore della peste per dar lavoro ai medici.
Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia.
Alla fine del marzo 1630 la peste è ovunque: da Porta Orientale miete vittime in ogni quartiere della città.
I medici contrari all’opinione del contagio ora parlano di febbri maligne e pestilenti, cercando così di camuffare la realtà del morbo che si trasmette con il contatto tra le persone.
I magistrati iniziano a porre maggiore attenzione agli avvisi del Tribunale della Sanità e così fanno rispettare le sue prescrizioni, eseguono i sequestri e le quarantene ordinate dallo stesso.
Il Tribunale chiede anche denari ai magistrati per far fronte alle spese giornaliere crescenti del lazzaretto e di altri servizi, così come fa pure il Senato per assicurare gli approvvigionamenti di grano e il cancelliere Ferrer per ordine del governatore, nel frattempo ripartito per Casale.
Al lazzaretto intanto la situazione diventa di giorno in giorno sempre più ingovernabile:
Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi.
Il tribunale e i magistrati chiedono aiuto ai frati cappuccini per mantenere l’ordine tra i malati. Il padre commissario provinciale propone padre Felice Casati (di importante famiglia milanese) e Michele Pozzobonelli (di nobile famiglia milanese).
Il 30 marzo vengono condotti al lazzaretto dal presidente della Sanità e a seguire si unirono a loro altri frati.
Padre Felice è instancabile: gira di giorno e di notte tra portici e stanze assicurando ordine e disciplina. Si ammala di peste ma guarisce, mentre tanti suoi confratelli cadono vittime della peste.
Il narratore riprende le informazioni del Ripamonti e ci dice che nei sette mesi in cui Padre Felice si è occupato del lazzaretto i malati presenti sono cinquantamila.
La volontà di negar la peste ormai va via via scemando perché il morbo si diffonde facilmente con il contatto e se finora si era trovato solo tra i poveri, anche le persone più conosciute ne sono vittime: i famigliari del protofisico Settala e lui stesso, che guarisce con un figlio (i due superstiti su 11 persone del nucleo familiare con personale di servizio).
Ma tra la gente inizia a farsi strada un’altra causa sul propagarsi del morbo: “arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe“, idea che trova spazio nelle superstizioni diffuse in tutta Europa.
A dar credito alle voci un dispaccio al governatore del re Filippo IV, dell’anno precedente, nel quale informa che quattro francesi erano scappati da Madrid e ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi.
La sera del 17 maggio 1630 succede un fatto strano, che alimenta le paure del popolo: alcune persone dicono di aver visto al duomo alcune persone ungere un’asse che serve da divisorio tra i fedeli dei sessi, allora la portano fuori dalla chiesa insieme alle panche vicine alla stessa. Il presidente della Sanità accorso con dei suoi ufficiali le visionano senza rilevare alcunché di sospetto.
Per maggiore sicurezza tutte le panche vengono lavate accuratamente, ma questa operazione produce grande impressione e spavento nella gente, che inizia a raccontare storie incredibili.
La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne.
La mattina del 18 maggio ecco un accadere un fatto nuovo e ancora più strano, uno spettacolo che colpisce i milanesi: in ogni parte della città ci sono tratti che presentano strisce di una sostanza giallognola e biancastra.
Questo fatto è attestato dal Ripamonti che lo descrive, così ci dice il narratore.
La città già agitata va sottosopra: i padroni delle case con l’ausilio della paglia bruciano tutte le parti unte. Sorge una psicosi verso i forestieri, che vengono arrestati ed interrogati, ma nessun reo confesso.
Il tribunale della sanità pubblica una grida nella quale si promette un premio ed impunità a chi indichi l’autore o gli autori del fatto.
Mentre il tribunale indaga tra le gente comune si fanno avanti diverse ipotesi:
Coloro che credevano esser quella un’unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl’insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell’altro gentiluomo milanese.
Ma ci sono anche coloro i quali pensano si tratti di uno scherzo sciocco messo in atto da scolari o ufficiali annoiati. Ma questo spavento si acquieta vedendo che non ha avuto come conseguenza né il contagio né un eccidio universale, tanto più che a Milano c’è ancora chi crede che la peste non esista, perché nel lazzaretto alcuni malati guariscono, mentre si crede che la pesta debba uccidere tutti.
Allora il tribunale della sanità trova un espediente, per fugare ogni dubbio, da attuare durante il giorno della Pentecoste, festa in cui i cittadini sono soliti recarsi al cimitero di San Gregorio fuori Porta Orientale per pregare i morti dell’altra peste (quella del 1576), nel momento di maggiore afflusso.
Proprio quel giorno era morta di peste un’intera famiglia. Il tribunale decide di mettere questi cadaveri nudi su di un carro che viene portato in mezzo alla gente verso il cimitero.
Ognuno deve vedere questi corpi, in esse deve riscontrare il marchio manifesto della pestilenza.
Un grido di terrore e ribrezzo si alza ovunque passi il carro.
Ecco, finalmente, peste senza dubbio.
Articolo aggiornato il 29 Marzo 2023 da eccoLecco