I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 21
Sul finire del capitolo 20 abbiamo visto l’Innominato ordinare alla vecchia di recarsi alla taverna della Malanotte con una “bussola” sulla quale far salire una giovane che si trovava sulla carrozza in arriva. La giovane ovviamente è Lucia, rapita a Monza, su richiesta di don Rodrigo (vedi riassunto capitolo 20 Promessi Sposi).
La vecchia obbedisce e si reca alla Malanotte, prima che la carrozza sia ancora arrivata. Appena giunta, scende dalla “bussola” e ferma la carrozza: si avvicina allo sportello e riferisce al Nibbio gli ordini del suo padrone.
Lucia si sente “rimescolare il sangue“, spalanca la bocca e gli occhi e si sente dire dalla vecchia di seguirla, di andare con lei.
Al sentire la voce di una donna, Lucia prova “conforto, un coraggio momentaneo“, ma poi ricade subitaneamente “in uno spavento più cupo“.
Al gesto minaccio del fazzoletto del Nibbio, Lucia segue la donna e sale nella bussola e le chiede chi sia, dove stanno andando e da chi.
La donna le dice di farsi coraggio e di non avere paura. Lucia implora di lasciarla e si affida alla Vergine Maria.
Nel mentre l’Innominato guardava dal suo castello la bussola che si avvicinava, preceduta dalla carrozza. Il Nibbio arriva al castello e l’Innominato lo conduce in una stanza.
I due parlano ed il Nibbio gli dice che Lucia gli “ha fatto troppa compassione“.
“Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?”
“Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia [p. 396 modifica]la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.”
“Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.”
“O signore illustrissimo! tanto tempo…! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole…”
L’Innominato, al sentire queste parole, inizia a pensare di non volere Lucia in casa sua e dice al Nibbio di andare ad informare don Rodrigo perché venga a prendersi la giovane, ma un “no” interiore lo ferma. Era già successo quando don Rodrigo gli aveva chiesto aiuto. Un “no” che ci mostra il percorso che sta facendo la sua coscienza, ormai devastata, la coscienza di un uomo in lotta con se stesso, tra la volontà di riaffermare la propria identità di criminale e il fastidio della stessa.
L’Innominato, “rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento“, inizia a pensare a quale demonio o angelo protegga la giovane e decide di andare da lei.
Bussa alla porta, la vecchia apre e l’Innominato, sulla soglia della porta, vede “Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall’uscio” e la invita ad alzarsi avvicinandosi a lei.
Lucia, però, nel vedere e sentire quell’uomo, si spaventa ancora di più e resta quanto più “raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani” e trema tutta.
L’Innominato la invita ripetutamente ad alzarsi, dicendole di non avere paura, che anzi può farle del bene.
Al che Lucia, “come rinvigorita dallo spavento“, si alza in ginocchio, si mette con le mani giunte e alza “gli occhi in viso all’innominato” per poi riabbassarli subito dicendo -“son qui, m’ammazzi” -.
L’uomo le ribadisce che non desidera farle del male in alcun modo, ma Lucia di risposta gli dice che non capisce il motivo per il quale lei sta passando tutte queste pene dell’inferno ed implora Dio.
Nel sentire la parola “Dio” l’Innominato si irrita e sta per dire a Lucia se utilizzi Dio per mettergli paura. Ritorna ancora la lotta interiore dell’uomo e della sua coscienza.
Lucia lo supplica di lasciarla andare ed implora la Vergine santissima, invoca la madre, chiede compassione all’uomo, gli chiede carità ed aggiunge “forse un giorno anche lei“, e ci ritorna in mente il “verrà un giorno…” che padre Cristoforo disse a don Rodrigo (vedi riassunto capitolo 6).
L’Innominato con voce dolce dice a Lucia di farsi coraggio e la vecchia si stupisce di tanta dolcezza.
Lucia dice all’uomo che vede “che ha buon cuore, e che sente pietà” per lei “povera creatura” e gli chiede di compiere “l’opera di misericordia” ovvero che la liberi.
L’uomo risponde “domattina” e Lucia controbatte “mi liberi ora, subito…“.
L’Innominato le dice che si rivedranno l’indomani ed informa la giovane che una donna arriverà tra poco a portarle da mangiare, quindi invita la vecchia a lasciare il letto a Lucia e si raccomanda con lei di tenerla allegra e di infonderle coraggio. Quindi se ne va dalla stanza. Lucia si alza per rincorrerlo e rinnovare la sua preghiera “ma era sparito“.
Lucia resta sola con la vecchia e le chiede “chi è quel signore“, il signore che le ha parlato.
Lucia singhiozza e la vecchia le si avvicina, facendole coraggio, ma la giovane le dice di lasciarla stare, che non ha fame e non vuole dormire.
Lucia non s’avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de’ suoi dolori, de’ suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all’immagini sognate da un febbricitante.
Bussano alla porta: “è Marta che porta da mangiare“, ma Lucia non vuole mangiare e si rassicura con la vecchia che la porta sia ben chiusa.
Lucia, raggomitolata nel suo cantuccio, con le ginocchia alzate ed il viso nascosto tra le mani, non dorme: è presa in un vortice “di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi”. Terrorizzata, “più che mai stanca e abbattuta” si sdraia e sembra addormentarsi.
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo nè sonno nè veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a sè stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s’applicava dolorosamente alle circostanze dell’oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall’incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest’angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero.
Però tutto ad un tratto si desta, “come ad una chiamata interna”, e quindi si fa cosciente interamente e cerca di capire bene dove si trova e perché.
Sente russare la vecchia, apre bene gli occhi e vede la luce fioca della lucerna ormai pronta a spegnersi.
“L’infelice” riconosce “la sua prigione” e le riaffiorano alle mente le memorie “dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire“, è vinta da un tale affanno che desidera morire.
L’unica cosa che può fare è pregare e così le nasce in cuore “un’improvvisa speranza” e “una fiducia indeterminata“.
Subito pensa che la sua preghiera possa essere “più accetta e più certamente esaudita” se insieme “facesse anche qualche offerta“.
Lucia si alza, si mette in ginocchio, congiunge le mani al petto tenendo un rosario ed alzando gli occhi al cielo si rivolge a Maria, supplicandola di aiutarla e liberarla dal pericolo in cui si trova, di farla ritornare sana e salva con la madre e fa voto che di restare vergine, rinunciando “per sempre a quel” suo “poveretto“.
Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacchè, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, nè concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: “o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata, voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, o Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra.”
Proferite queste parole, Lucia abbassa la testa, si pone la corona intorno al collo e si rimette a sedere, con una certa tranquillità nell’animo e “una più larga fiducia“.
Le viene in mente il domattina ripetuto dall’uomo, che ora le risuonava come “una promessa di salvazione“, e finalmente s’addormenta “d’un sonno perfetto e continuo“.
E menre Lucia dorme, l’Innominato che avrebbe voluto fare altrettanto, non riesce.
Dopo aver lasciato Lucia nella stanza con la vecchia, il Manzoni ci dice “quasi scappato da Lucia“, ha sempre l'”immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio“.
Chiuso in camera l’immagine di Lucia è “più che mai presente” e sembra dirgli che non dormirà.
Inizia così a pensare e chiedersi se sia ancora un uomo oppure no, che cosa gli sia successo.
Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; [p. 406 modifica]è vero, non è più uomo!… Io?… io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?
E subito pensa al passato: a quante volte aveva sentito lamenti e supplichi, ma non lo avevano smosso.
Invece ora è pervaso da “una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento“.
— È viva costei, — pensava, — è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi…. Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io…! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!… Via! — disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: — via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa. —
Ogni cosa gli sembra cambiata. E qui Manzoni ce lo rappresenta con una metafora molto calzante: “la passione, come un cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti“.
“Pensando all’imprese avviate e non finite, in vece d’animarsi al compimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (chè l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave)“, sente “tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti“.
Il tempo gli si presenta dinanzi vuoto “d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili“. Le ore passano lente e pesanti.
Qual è l’unica occupazione alla quale può dedicarsi l’indomani? Certamente “lasciare in libertà quella poverina“.
Decide che la libererà appena si farà giorno. Decide che correrà da lei e le dirà di andare. Subito dopo pensa alla promessa fatta a don Rodrigo. Ma si chiede – “chi è don Rodrigo?” -.
L’Innominato non è più quello di una volta, è un “nuovo lui” che è “cresciuto terribilmente a un tratto” per “giudicare l’antico“.
E allora si domanda il perché delle sue azioni recenti: perché si è preso l’impegno di “far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta” per servire don Rodrigo.
Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di sè stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita.
Ripensa a tutte le scelleratezze compiute in passato, che gli ricompaiono ora all’animo sotto una luce nuova, con un “animo consapevole e nuovo” riportando tutta la mostruosità che allora non era riuscito a scorgervi.
Si alza di corsa ed afferra una pistola: vuole farla finita, ormai la vita è “divenuta insopportabile“. Ma pensa subito a lui cadavere, al suo corpo deforme, alle chiacchiere della gente, così muove avanti e indietro il suo pollice sul cane della pistola e nuovi pensieri iniziano a tormentarlo, soprattutto la domanda sulla vita eterna dopo la morte. E se non esiste?
S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. — Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è; se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perchè morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia… E se c’è quest’altra vita…! —
Ecco la “disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte“. Lascia cadere l’arma, si mette le mani dei capelli ed inizia a tremare, battendo i denti.
Gli riecheggiano in mente le parole di Lucia: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!“. Le vive risentendo il “suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza“, provando così un momento di sollievo.
Non vede più Lucia come una sua prigioniera, ma come colei che “dispensa grazia e consolazione“.
Aspetta con ansia che si faccia giorno per poterla liberare e subito si chiede cosa farà poi dopo ed i giorni a seguire.
E riprendono i pensieri sull’avvenire, quando inizia ad albeggiare e sente “uno scampanare a festa lontano“.
Salta fuori dal letto, si veste per metà e corre alla finestra per vedere cosa stia succedendo e chiede ad un bravo il motivo di tanto movimento.
Ci sono “uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli” che escono di casa e vanno insieme verso una stessa direzione.
Le campane continuano a suonare ed è evidente che ci sia “una gioia comune“.
L’innominato guarda e in cuor suo cresce la curiosità di capire “cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa“.
Articolo aggiornato il 8 Giugno 2022 da eccoLecco