I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 25
Nel capitolo ventiquattresimo abbiamo visto Lucia ristorata e rasserenata presso la casa del sarto e l’Innominato che informa i suoi della nuova vita (vedi riassunto capitolo 24).
Il giorno seguente nel paese di Lucia e in tutto il territorio di Lecco non si parla “che di lei, dell’innominato, dell’arcivescovo e d’un altro tale, che (…) n’avrebbe fatto volentieri di meno: (…) don Rodrigo“.
Don Rodrigo resta “fulminato” dalla “notizia così impensata” che se ne sta rintanato nel suo palazzotto a rodersi per ben due giorni con i suo bravi.
Solo il terzo giorno decide di partire per Milano e lo fa perché gli giunge notizia che il cardinale Borromeo sarebbe arrivato in visita al paese.
Così una mattina “alzatosi (…) prima del sole” si mette in carrozza con il Griso ed altri bravi. Parte come un fuggitivo.
Intanto arriva il cardinale a visitare le parrocchie di Lecco: una per giorno.
Verso le tre del pomeriggio arriva a quella di Lucia e la gente del paese accorre, preceduta da don Abbondio.
Il cardinale avanzando benedice le persone presenti ed entra in chiesa.
Si ferma un po’ a pregare e poi fa un piccolo discorso al popolo, quindi si ritira a casa del parroco e gli chiede informazioni su Renzo.
Don Abbondio gli risponde che è “un giovine un po’ vivo, un po’ testardo, un po’ collerico” ma che comunque è un galantuomo e nemmeno lui capisce come abbia potuto fare “tutte quelle diavolerie” a Milano.
Il cardinale poi si rassicura chiedendo se Lucia possa ritornare ad abitare a casa sua ed il curato gli dice che certamente può ma ci sarebbe bisogno che lui fosse sempre lì o comunque vicino.
Allora l’arcivescovo dà ordine che l’indomani le due donne siano mandate a prendere per fare ritorno a casa.
Don Abbondio è contento che il cardinale non gli abbia posto altre domande e precisamente non gli abbia chiesto perché si fosse rifiutato di sposarli.
Alla casa del sarto Lucia impegna il suo tempo a cucire “ritirata in una stanzina, lontano dagli occhi della gente” ed Agnese un po’ aiuta la figlia ed un po’usciva.
Quando sono insieme, i loro discorsi sono tristi ma affettuosi: il futuro è “oscuro, imbrogliato“, ma Agnese confida che Renzo si faccia vivo e così si potrebbe andare a vivere con lui.
Lucia al sentire questi pensieri non dice nulla: non racconta alla madre del voto, non le dice che “s’era abbandonato alla Provvidenza“, e a volte piange dicendo “di non avere più speranza, né desiderio di cosa di questo mondo“.
Poco distante dal paese del sarto villeggia una coppia di alto lignaggio: don Ferrante e donna Prassede. Il narratore ci dà qualche informazione su di lei: “una vecchia gentildonna molto inclinata a fare del bene” e al sentire “il gran caso di Lucia” le viene curiosità di vederla, così manda una carrozza a prendere madre e figlia.
Lucia chiede al sarto di scusarsi con la signora, ma stavolta il sarto, di fronte alla richiesta di donna Prassede non può rifiutare e Lucia si arrende.
Arrivate a casa della signora vengono accolte con “molte congratulazioni” che porge loro domande, ma utilizza espressioni umili e tanta premura condita di spiritualità.
Donna Prassede, sentendo che il cardinale s’era incaricato di trovare un posto dove Lucia potesse stare al sicuro, propone alla giovane la sua casa.
L’obiettivo della donna è duplice: sicuramente fare del bene, ma “se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di raddrizzare il cervello” a Lucia. Infatti la donna pensava che una giovane che decide di sposare un “poco di buono, (…) un sedizioso”, sicuramente deve nascondere qualcosa. “E la vista di Lucia aveva confermata quella persuasione“.
Ma il narratore, dopo descriverci Lucia secondo gli occhi di donna Prassede, ci tiene a precisare che “della seconda intenzione” la donna se ne guarda bene dal dare “il minimo indizio“.
Lucia ed Agnese si guardano in viso: l’idea di doversi allontanare è dolorosa, ma la villa è “così vicina al loro paesetto” che
visto, l’una negli occhi dell’altra, il consenso, si voltaron tutt’e due a donna Prassede con quel ringraziare che accetta. Essa rinnovò le gentilezze e le promesse, e disse che manderebbe subito una lettera da presentare a monsignore.
Una volta partite le donne, donna Prassede si fa aiutare da don Ferrante a scrivere la lettera per il cardinale Borromeo, che viene spedita alla casa del sarto. Questo avviene due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per ricondurre le donne al loro paese.
Arrivate al paese, scendono alla casa parrocchiale dove si trovare il cardinale, che sta discorrendo con don Abbondio “sugli affari della parrocchia“.
Quest’ultimo nel passare accanto ad Lucia ed Agnese, mentre usciva dalla stanza per farle entrare, strizza loro l’occhio in segno di compiacimento perché non hanno rivelato nulla all’arcivescovo.
Una volta a tu per tu con il cardinale Agnese si sfila la lettera di donna Prassede dal seno e gliela consegna.
Il cardinale conosce bene quella casa per essere certo che Lucia fosse invitata con buona intenzione e che lì sarebbe stata al sicuro da insidie e violenze del suo persecutore.
Rassicura le donne in merito alla loro separazione dicendo che il Signore guiderà ogni cosa “a quel termine a cui pare le avesse indirizzate“.
Suonano le campane: devono iniziare le funzioni. Tutto si dirigono in chiesa.
Terminate le funzioni don Abbondio viene fatto chiamare dal cardinale:
“signor curato; perchè non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?”
Ecco che don Abbondio inizia a pensare che Lucia ed Agnese abbiano parlato e così risponde che sicuramente il monsignor ha sentito parlare degli “scompigli” nati, della grande confusione generata in merito. Ma il cardinale lo incalza:
“domando (…) se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perchè.”
(…)
“è il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perchè non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare.”
Don Abbondio si fa “piccino piccino” ed inizia a raccontare “la dolorosa storia” ma non rivela il nome di don Rodrigo, lo sostituisce con un grande signore, e dice che la sua vita era in pericolo, che era stato minacciato, qualora avesse celebrato il matrimonio.
Il cardinale si fa sempre più serio e “con accento ancor più grave” pone a don Abbondio domande sul suo ministero e gli obblighi ad esso correlati:
E quando vi siete presentato alla Chiesa,” (…) “per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?”
Don Abbondio se ne sta a testa bassa, mentre il cardinale proferisce queste parole e lo richiama alla sua missione ecclesiastica: “il suo spirito” si trova “come un pulcino negli artigli del falco” nel sentire tali argomenti.
Il curato dice di avere torto aggiungendo che “il coraggio, uno non se lo può dare”.
Il cardinale prosegue nel suo discorso serrato e gli chiede se serve coraggio per adempiere alle obbligazioni del ministero, se forse i martiri avessero coraggio insito in loro per natura.
E continua ricordando a don Abbondio il suo compito di pastore della comunità, che è tenuto ad amare i propri figli che a lui si rivolgono per le cure spirituali, che da lui si aspettano conforto e carità. E termina il discorso chiedendo espressamente al curato cosa lui abbia fatto per questi figlioli: cosa? Cosa ha pensato?
Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perchè era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perchè era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?”
Poi si zittisce ed aspetta.
Articolo aggiornato il 4 Ottobre 2023 da eccoLecco