I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 24
Dopo la notte tormentata di Lucia e dell’Innominato (vedi riassunto capitolo 21) e la conversione dell’Innominato con il cardinale Federigo Borromeo (vedi riassunto capitolo 23), alla fine del capitolo 23 vediamo l’Innominato, don Abbondio e la buona donna salire le scale del castello per andare a liberare Lucia.
Lucia si è svegliata da poco, dice subito alla vecchia che è con lei che vuole andare da sua madre, quando si sente battere all’uscio.
L’Innominato apre la porta, fa uscire la vecchia e fa entrare don Abbondio e la buona donna, quindi socchiude l’uscio e si ferma dietro.
Lucia è presa dall’agitazione dato il movimento e non si ravvede subito che il prete è il suo curato. Quando capisce che si tratta di don Abbondio resta come incantata, con gli occhi fissi.
Quest’ultimo le fa coraggio e le dice che son venuti per portarla via.
Lucia è come se riacquistasse tutte le sue forze e si alza in piedi, poi ringrazia la Madonna.
Ma poi chiede subito di “quel signore…! quell’uomo…!” dicendo che le aveva promesso che l’avrebbe liberata.
Ed ecco che “quello di cui si parlava” aprire l’uscio e nel vedere Lucia con un aspetto “squallido, sbattuto, affinato dal patire prolungato e dal digiuno“ rimane immobile e muto, fermo sull’uscio, pronunciando solo -“perdonatemi!“.
La donna la rincuora dicendole che è diventato buono e non è più quello.
Lucia alza la testa e “presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscimento e di pietà” dice -“oh, il mio signore! Dio le renda merito della sua misericordia!“
Tutti escono dalla stanza e scendono le scale per dirigersi alla lettiga. L’Innominato aiuta Lucia e la buona donna a salire, mentre don Abbondio sale sulla mula.
Lasciano il castello dell’Innominato per recarsi al paese dove si trova il cardinale Borromeo in visita.
Durante il tragitto la buona donna conforta Lucia e le dice che “il Signore” l’ha “salvata miracolosamente“, ma si trattiene dal farle domande.
Don Abbondio invece è preso ancora da pensieri, così come durante il viaggio di andata. Stavolta “meno angoscioso“, la “pauraccia” è cessata.
Il narratore onnisciente si rappresenta il soliloquio del curato, dicendoci che “non gli manca pur troppa materia di tormentarsi“.
Infatti don Abbondio inizia a lamentarsi della mula e con la mula perché si ostina a camminare sul ciglio della strada, cercando così pericoli, quando invece c’è un bel sentiero; poi “rodendosi di stizza e di paura” il pensiero ricorre ai bravi: lo riterranno responsabile della conversione dell’Innominato? Subito dopo si domanda cosa penserà don Rodrigo e su chi intenderà sfogare la sua ira: non certamente sull’Innominato, allora su di lui?
Sta a vedere che se la piglia anche con me, perchè mi son trovato dentro in questa cerimonia.
(…)
Intanto il veleno l’avrà in corpo, e sopra qualcheduno lo vorrà sfogare. Come finiscono queste faccende? I colpi cascano sempre all’ingiù; i cenci vanno all’aria. (…) ecco che il cencio son diventato io.
Infine don Abbondio teme che il cardinale Borromeo possa rivolgerli domande per conoscere la storia.
Quindi decide che andrà sì a salutare il monsignor, ma poi subito a casa.
(…) n’ho abbastanza de’ guai. Per ora vo a chiudermi in casa. Fin che monsignore si trova da queste parti, don Rodrigo non avrà faccia di far pazzie. E poi… E poi? Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male! —
Lucia viene ospitata nella casa della buona donna, la moglie del sarto: viene fatta sedere “nel miglior luogo della sua cucina” mentre lei prepara “un buon cappone“.
Questa nota del narratore ci mostra l’agiatezza della famiglia in contrasto con la carestia del momento.
Lucia si rifocilla, riprende forza e le sovviene in mente “la memoria del voto” e si chiede perché lo ha fatto, ma subito ricorda “le circostanze del voto, l’angoscia intollerabile, il non avere una speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta” e rinnega prontamente “quel pentimento momomentaneo” e rinnova il voto.
Il sarto torna a casa con i figliuoli, dopo la messa celebrata dal cardinale Borromeo. Piccola digressione sul sarto, che è un uomo acculturato ed è riconosciuto come “uomo di talento e di scienza“.
Tutti si mettono a tavola, alla casa del sarto, e lui inizia a raccontare della “conversione miracolosa” e della predica del cardinale, nella quale invitava alla carità. Allora il sarto prende delle vivande del tavolo ed un fiaschetto di vino e dice alla figlia maggior di portarlo ad una vedova del paese.
Agnese sta raggiungendo Lucia. Durante il viaggio incontra don Abbondio, il quale la ragguaglia di quanto accaduto e si raccomanda con lei di non far parola con l’arcivescovo in merito al matrimonio mancato.
Agnese finalmente arriva ed entra di corsa in casa: madre e figlia sono di nuovo insieme e si abbracciano.
Lucia le racconta quanto accaduto, ma non le rivela del voto.
Anche il cardinale è a pranzo con l’Innominato, seduto alla sua destra, ed altri preti. Finito il pranzo, i due si ritirano e parlano a lungo nuovamente, più a lungo della prima volta.
Poi l’Innominato ritorna al suo castello, mentre il porporato si reca da Lucia. Lungo la strada la folla gli si cinge intorno. Tra questi anche il sarto stesso, che lo introduce in casa.
Il cardinale incoraggia le due donne e poi Agnese si lascia andare e si sfoga dicendo che don Abbondio non ha svolto il suo dovere: che doveva sposare quei due giovani, però tralascia il tentativo di matrimonio segreto, la famosa notte degli imbrogli.
Interviene allora Lucia, che lo confessa.
Il cardinale comprende e poi si interessa di Renzo, dicendo che si preoccuperà di lui, chiede inoltre al sarto se può ospitare ancora per qualche giorno le due donne. Il sarto è inorgoglito da tale proposta e studia “qualche bella risposta“, ma gli esce solo “si figuri!“.
Di sera chiede al curato del paese come ricompensare la generosità del sarto, pagando tutti i debiti pendenti del sarto.
Nel frattempo l’Innominato convoca tutti i suoi bravi nella “sala grande” del castello e comunica loro la sua conversione e la sua decisione di cambiare vita e chiede lo stesso ai suoi. Li solleva da ogni ordine malvagio che aveva loro imposto ed aggiunge che nessuno, d’ora in poi, può commettere del male con la sua protezione.
Quindi, chi desidera restare dovrà farlo secondo i nuovi patti, gli altri saranno stipendiati, ma poi dovranno lasciare il castello.
I bravi lo ascoltano in silenzio, vedono in lui “un santo“, “la maraviglia, l’idolo d’una moltitudine, (…) al di sopra degli altri, ben diversamente da prima, ma non meno; sempre fuori dalla schiera comune, sempre capo“, provano “un’affezione come d’uomini ligi“, “una benevolenza d’ammirazione“.
Restano “sbalorditi, incerti l’uno dell’altro, e ognun di sè“. Al cenno del padrone di andarsene “quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme” si disperdono.
Finalmente ora è tutto quieto e l’Innominato finalmente può andare a dormire. S’accosta al letto, che la sera antecedente era stato un letto di spine e di tormenti, si inginocchia con l’intenzione di pregare.
Provava in questo un misto di sentimenti indefinibile; una certa dolcezza in quel ritorno materiale all’abitudini dell’innocenza; un inasprimento di dolore al pensiero dell’abisso che aveva messo tra quel tempo e questo; un ardore d’arrivare, con opere di espiazione, a una coscienza nuova, a uno stato il più vicino all’innocenza, a cui non poteva tornare; una riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre a quello stato, e che gli aveva già dati tanti segni di volerlo.
Si alza, si infila nel letto e si addormenta subito.
Articolo aggiornato il 9 Giugno 2022 da eccoLecco