I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 9
Dopo la notte degli imbrogli ed i piani saltati, sia per i promessi sposi, che per don Rodrigo, che voleva rapire la giovane, Renzo e Lucia si allontanano da Lecco in barca con Agnese , su indicazioni di padre Cristoforo, che suggerisce loro un rifugio sicuro.
Dopo la struggente chiusura con l'”Addio, monti sorgenti dall’acque“, si veda riassunto capitolo 8, troviamo i tre che sbarcano finalmente in un paese che non viene espressamente nominato, infatti il narratore onnisciente ci dice che “il nostro autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi [p. 166 modifica]protesta espressamente di non lo voler dire“.
Però il narratore ci dà alcune indicazioni del luogo di soggiorno di Lucia: le sue avventure “si trovano avviluppate in un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto potente“, aggiungendo che “uno storico milanese1 che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non nomina, è vero, nè lei, nè il paese; ma di questo dice che era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava che il nome; dice altrove, che ci passa il Lambro;… noi deduciamo che fosse Monza senz’altro“.
“I nostri viaggiatori” arrivano “dunque a Monza, poco dopo il levar del sole“: Renzo trova una stanza presso un’osteria, dove saluta Lucia tra le lacrime con la promessa di rivedersi presto, mentre le due donne s’avviano al convento dei cappuccini. Con loro hanno la lettera di raccomandazione ricevuta da padre Cristoforo, che danno al frate che le accompagna “al monastero della signora“.
Le donne chiedono al barrocciaio chi fosse questa signora e costui tratteggia il personaggio della monaca di Monza, dicendo che “è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani(…) e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna“.
Arrivate al convento, il guardiano le fa entrare nel “primo cortile del monastero” e si rassicura con loro, dicendogli di essere “umili e rispettose” e di rispondere “con sincerità alle domande” che la monaca vorrà fare.
Quindi attraversano un secondo cortile ed entrano in “una stanza terrena” dalla quale si passa nel parlatorio, ed ecco che compare la religiosa: Agnese vede “una finestra d’una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l’una dall’altra un palmo; e dietro quelle una monaca ritta“.
Ora il narratore ci descrive molto dettagliatamente la figura della monaca di Monza quindi Lucia e Agnese si trovano al suo cospetto. Quest’ultima inizia a parlare e viene prontamente zittita dalla religiosa, quindi interviene il guardiano che risponde alla richiesta di delucidazione della monaca che chiede -“quali pericoli?“, dicendo che “un cavalier prepotente, dopo aver perseguitata qualche tempo” Lucia “con indegne lusinghe, vedendo ch’erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua”.
La Monaca di Monza e Lucia hanno un brevissimo colloquio e infine la monaca indica la sistemazione delle due donne, presso la fattoressa del convento.
Ora il narratore apre un lungo excursus sulla storia della monaca, iniziando così: “era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese“, che quando nacque la figlia scelse un nome “che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude“.
Una bambina predestinata alla vita monastica: “a sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta“, dove gode di particolari riguardi ed infatti viene chiamata “per antonomasia la signorina“.
Passano gli anni e ha varcato “la puerizia“, inoltrandosi “in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto“.
“I pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena“.
Ma prima di divenire monaca e quindi prima di prendere i voti, “era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d’essere stata esaminata da un ecclesiastico,…, o da qualche altro deputato a ciò, affinché fosse certo che ci andava di sua libera scelta“. Questo avveniva un anno dopo che la giovane aveva espresso il suo desiderio al vicario stesso.
Gertrude, alimentata dalle monache che le ripetevano che “era una mera formalità” scrive la lettera, ma poi si pente.
Trascorso l’anno, arriva il momento per Gertrude di trascorre un mese lontano dal convento, anch’esso prassi nel percorso di noviziato. Saputa tale informazione Gertrude decide di scrivere una lettera al padre nel quale lo informa “della sua nuova risoluzione“. Attende invano una risposta e giunge il momento di trascorrere il mese a casa.
Gertrude vive “una gioia tumultuosa“, finalmente è giunto “il giorno tanto temuto e tanto bramato” e si ripete che sarà dura, umile, rispettosa, ma non acconsentirà, e ancora li pregherà, li muoverà a compassione, dicendo: “finalmente non pretendo altro che di non essere sacrificata“.
Purtroppo però a casa non avviene quanto lei spera, infatti il padre la tiene isolata e prigioniera: “a clausura era stretta e intera, come nel monastero; d’andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l’unica necessità che ci sarebbe stata d’uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno variata che nel monastero”.
Un giorno nota un paggio che le porta rispetto. Decide quindi di scrivergli una lettera, che avrebbe fatto meglio a non scrivere, ma viene colta dalla cameriera che porta la lettera al padre.
Il padre è “irritato” e lei si sente “colpevole“. Il paggio viene sfrattato e minacciato, e Gertrude castigata a restare “rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta“.
Dopo “quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all’eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana” si rifugia in un angolo della camera, e resta lì “con la faccia nascosta tra le mani… a divorar la sua rabbia“. Sente “allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente“.
Si alza e riprende “quella penna fatale” e scrive “al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo“.
1 – Lo storico milanese a cui Manzoni fa riferimento è Giuseppe Ripamonti.
Articolo aggiornato il 9 Giugno 2022 da eccoLecco