I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 8
Siamo nel momento che precede la “notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi” e il capitolo precedente si chiude con Tonio che si è recato da don Abbondio, con la scusa di saldare il suo debito, per mettere in atto il matrimonio a sorpresa insieme a Gervaso ed ai due “sposi promessi“. Si veda riassunto capitolo 7 dei Promessi Sposi.
Il capitolo 8 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni si ricorda, oltre che per il matrimonio a sorpresa, che occupa la prima parte, specialmente per il memorabile “Addio monti” che chiude il capitolo stesso.
Ma vediamo cosa succede, se il matrimonio a sorpresa avrà buon esito oppure no.
“– Carneade! Chi era costui? –” dice don Abbondio, mentre sul suo seggiolone legge un “libricciolo aperto davanti“, quando nella stanza entra Perpetua che annuncia l’arrivo di Tonio, suggerando al curato che è meglio pigliarlo al volo. Ovviamente don Abbondio accorda prontamente, così Perpetua apre l’uscio ed insieme a Tonio trova Agnese, che la irretisce con dei falsi pettegolezzi per allontanarla dalla casa.
Il narratore onnisciente ci dice che “in faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casupole, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo“. Agnese ci si avvia “per parlar più liberamente; e Perpetua dietro“. Quando si trovano un poco distanti, comunque a sufficienza affinché non si veda più ciò che accade davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossisce forte. Questo è il segnale: Renzo lo sente e fa coraggio a Lucia ed insieme, “in punta di piedi” e “zitti zitti” avanzano “rasentando il muro” verso l’uscio della casa del curato.
Qui trovano i due fratelli, Tonio e Gervaso, “e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore“.
Arrivati sul pianerottolo i fratelli si affacciano alla porta della stanza dove si trova don Abbondio, seduto “sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli” fa “da cornice alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna“.
Nella penombra i due avanzano e Tonio dà le 25 monete al curato, chiedendo in cambio che gli restituisca la collana data in pegno. Non contento poi Tonio chiede a don Abbondio di scrivere due righe che accertino l’avvenuto pagamento. Il curato scrive e quando porge il foglio a Tonio, i fratelli si aprono e compaiono Renzo e Lucia.
Don Abbondio li vede “confusamente“, poi “chiaro“, quindi si spaventa, si stupisce, si infuria quando Renzo proferisce le parole “– signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie –“, ma sul finire il curato reagisce prontamente e “alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la dritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino” si avvicina a Lucia, che “con quella sua voce soave, e allora tutta tremante” ha appena iniziato a dire “– e questo…-” che si trova in testa il tappeto.
Lascia cadere la lanterna ed inizia ad urlare “Perpetua! Perpetua! tradimento!” quindi si rifugia nella stanza vicina, apre una finestra che guarda sulla piazza della chiesa ed inizia a gridare “aiuto! aiuto!“. Lì vicino abita il sagrestano che si allerta subito e su richiesta di don Abbondio “corre al campanile, afferra la corda della più grossa delle due campane che c’erano, e suona a martello“, svegliando tutto il paese.
Nel mentre Menico, di ritorno dal convento di padre Cristoforo, si reca a casa di Lucia, dove trova i Bravi di don Rodrigo, che erano entrati in casa per rapire Lucia, ma la trovano vuota. I bravi sentono lo scampanio e “corrono alla casa, dov’era il grosso della compagnia“. Perpetua torna verso casa, seguita da Agnese, e quando apre l’uscio si trova innanzi “Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia” che”eran venuti giù saltelloni” e “correvano in furia, a mettersi in salvo“.
Tutto il paese, destato dalle campane, è in agitazione: “era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir di finestre, un apparir e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla strada“. Menico, sfuggito ai Bravi, informa Agnese, Renzo e Lucia del messaggio di padre Cristoforo, confermando che in casa c’erano i Bravi, e di andare subito al convento.
I tre si guardano “in viso l’un con l’altro, spaventati“, poi prendono “la loro strada, pensierosi; le donne innanzi, e Renzo dietro, come per guardia” e sbucano “finalmente sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento“.
Entrano nel convento dove padre Cristoforo dice loro: “vedere bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuro che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti” e quindi dà loro precise istruzioni sul da farsi. Le due donne andranno in un posto “fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa“, mentre Renzo deve consegnare una lettera ad un confratello a Milano.
Renzo, Lucia ed Agnese si recano, dove gli aveva indicato il padre, ovvero “alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione. È un torrente a pochi passi da Pescarenico“. Qui trovano una barca, dicono la parola d’ordine e vi salgono, lasciando così Lecco.
Ora il narratore ci descrive un bellissimo quadro dell’allontanarsi dei tre nel cuore della notte lungo il fiume Adda.
Desidero riproporlo perché il silenzio che lo contraddistingue, si contrappone in maniera netta al trambusto ed alla concitazione ed agitazione dei momenti che lo hanno preceduto ed hanno contraddistinto il matrimonio a sorpresa saltato.
“Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato per il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglio più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte. (…) I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna. (…) Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falde del promontorio. (…) Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la folta chioma del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era; nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire e pianse segretamente”.
Da qui iniziio l'”Addio, monti sorgenti dall’acque” che non è, come spesso capita di sentire il monologo di Lucia, mentre lascia la sua terra, ma è il narratore che ci racconta questo saluto intimo ed intimistico in maniera indiretta. Un brano tra i più conosciuti e riconosciuti del romanzo.
Articolo aggiornato il 9 Giugno 2022 da eccoLecco