I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 29
Nel precedente capitolo XXVIII Alessandro Manzoni per mano del narratore ci introduce il tema della carestia, della peste e la gestione della situazione dei malati ospitati presso il Lazzaretto di Milano. La discesa delle truppe mercenarie tedesche dalla Valtellina accresceva il pericolo del morbo (vedi riassunto capitolo 28 Promessi Sposi).
Lo storico Tadino scrive, in merito all’invasione:
la prima terra dopo il Forte di Fuentes, che fu Colico la distrussero e l’abbruggiorno in un sol giorno… Di là partiti per passare nella Valsassina, arrivati alla terra di Bellano… Arrivorno poi successivamente alli confini dei detta valle verso Lecco.
Ragguaglio, Alessandro Tadino
E così apre il capitolo ventinovesimo dei Promessi Sposi: con la paura delle persone che cercano di mettersi al riparo o di scappare dal paese.
Chi possiamo trovare “tra i poveri spaventati“? Don Abbondio! Ecco che ricompare sulla scena.
Appena ha saputo della calata dell’esercito e del suo avvicinarsi, dopo aver saccheggiato Cortenova, messo a fuoco Primaluna, devastato Introbio, Pasturo e Barzio ed essere arrivati a Ballabio, alle porte di Lecco, don Abbondio è risoluto di fuggire – “risoluto prima di tutti e più di tutti” – però, pauroso com’è, vede in ogni strada da prendere, in ogni luogo dove trovare riparo, “ostacoli insuperabili e pericoli spaventosi“.
L’invasione dei Lanzichenecchi rende difficile trovare una via di fuga: le montagne sono facile preda dei mercenari, i pescatori hanno messo al sicuro le barche, quindi via lago è impossibile fuggire, oltre al fatto che il lago è ingrossato quindi difficilmente navigabile, cosa resta? Trovare riparo nelle vicine terre bergamasche, ma Venezia ha mandato mercenari veneziani per tenere a bada i Lanzichenecchi e non fargli oltrepassare il confine.
Don Abbondio corre stralunato per casa cerando di trovare una soluzione sul da farsi con Perpetua, che è invece indaffarata a mettere in salvo gli oggetti di casa, nascondendoli in soffitta e sotterrando i soldi nell’orto e incitando il curato a darle una mano anziché continuare a lamentarsi.
Don Abbondio è insistente sul da farsi, quando arriva Agnese.
“Ma dove andiamo?”
“Dove vanno tutti gli altri? Prima di tutto, anderemo in istrada; e là sentiremo, e vedremo cosa convenga di fare.”
In quel momento entrò Agnese con una gerletta sulle spalle, e in aria di chi viene a fare una proposta importante.
Agnese è altrettanto risoluta nel lasciare il paese per trovare un rifugio più sicuro e si ricorda delle parole dell’Innominato, che nella lettera con gli scudi, le aveva indicato che era al servizio in caso di bisogno, e allora perché non chiedere asilo proprio a lui, in “quel suo castello posto in un luogo così sicuro“.
Si mettono quindi tutte e tre in cammino, passando per campi ed ognuno con i propri pensieri in testa. Il più guardingo ovviamente don Abbondio che non perde occasione per brontolare ed avercela principalmente con il governatore che avrebbe dovuto tener lontano i flagelli del paese.
Perpetua lo rimprovera dicendogli di smettere con tutte queste chiacchiere che non portano a nulla.
Agnese interrompe questi contrasti parlando dei suoi guai e di quanto fosse grande il rammarico per non poter vedere Lucia.
Usciti dai sentieri prendono la strada pubblica, quella stessa strada che Agnese aveva compiuto con Lucia dopo aver soggiornato per qualche giorno dal sarto.
Decidono così di salutare “quella brava gente“: vengono accolti a braccia aperte ed invitati a fermarsi a pranzare con loro.
Il sarto poi si preoccupa di trovare un baroccio che li conducesse ai piedi della salita.
Ci caricano le gerle e salgono, pronti ad intraprendere”con un po’ più d’agio e tranquillità d’animo, la seconda metà del viaggio“.
Il narratore adesso ci ripresenta la figura dell’Innominato, dopo la conversione avvenuta con il cardinale Borromeo.
Da quando lo abbiamo lasciato ha sempre continuato a fare ciò che si era imposto: “compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri, sempre del bene in somma, secondo l’occasione“.
È “quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s’era umiliato da sé“.
Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti.
Al calare delle truppe alemanne i fuggiaschi dei paesi invasi o minacciati chiedono rifugio al castello e l’Innominato è ben contento di accoglierli ad ospitarli tra le sue mura.
Si sparge ben presto la notizia che le porte della sua casa sono aperte a chiunque voglia rifugiarvisi e decide quindi di mettere in difesa il castello e la valle sottostante qualora i lanzichenecchi o i cappelletti (mercenari veneziani) si dovessero avvicinare.
Nello stesso tempo, aveva messo in moto altr’uomini e donne di servizio, o suoi dipendenti, a preparar nel castello alloggio a quante più persone fosse possibile, a rizzar letti, a disporre sacconi e strapunti nelle stanze, nelle sale, che diventavan dormitòri. E aveva dato ordine di far venire provvisioni abbondanti, per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe, e i quali infatti andavan crescendo di giorno in giorno. Lui intanto non istava mai fermo; dentro e fuori del castello, su e giù per la salita, in giro per la valle, a stabilire, a rinforzare, a visitar posti, a vedere, a farsi vedere, a mettere e a tenere in regola, con le parole, con gli occhi, con la presenza. In casa, per la strada, faceva accoglienza a quelli che arrivavano; e tutti, o lo avessero già visto, o lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i guai e i timori che gli avevano spinti lassù; e si voltavano ancora a guardarlo, quando, staccatosi da loro, seguitava la sua strada.
Articolo aggiornato il 9 Giugno 2022 da eccoLecco