I Promessi Sposi
Riassunto Capitolo 28
Il capitolo 28 è interlocutorio tra il precedente in cui ci viene data l’immagine dei due promessi sposi: Renzo è in salvo e inizia un carteggio con Agnese, mentre Lucia è ospite a casa di donna Prassede e don Ferrante (vedi riassunto capitolo 27) e i seguenti dove Manzoni ci racconterà della peste del 1630.
Sul finire del capitolo ventisette il narratore ci dice chiaramente che non succede alcunché ai nostri personaggi “fino all’autunno del seguente anno 1629“, e al contempo ci introduce il racconto di fatti pubblici, che vediamo in questo capitolo XXVIII, in cui si intravedono i segnali della peste, preceduta da un grande carestia.
Dopo i tumulti di San Martino e l’assalto ai forni sembra che a Milano sia tornata l’abbondanza: pane in gran quantità, prezzo come ai tempi migliori, però questo stato di grazia non dura a lungo.
Pane in quantità da tutti i fornai; il prezzo, come nell’annate migliori; le farine a proporzione“.
(…)
Sulle piazze, sulle cantonate, nelle bettole, era un tripudio palese, un congratularsi e un vantarsi tra’ denti d’aver trovata la maniera di far rinviliare il pane. In mezzo però alla festa e alla baldanza, c’era (e come non ci sarebbe stata?) un’inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a durare.
Tutti consumano senza risparmio e si approvvigionano di pane e farine quanto più possibile.
Questo meccanismo rende impossibile lo stato continuativo, ed infatti il cancelliere Ferrer il 15 novembre emette una grida nella quale si proibisce, a chi già è fornito di pane e farina, di acquistarne altro: il bisogno del pane deve essere per due giorni e non di più, con pene pecuniarie e corporali per la non ottemperanza.
A seguire altre grida per requisire il riso greggio da utilizzare come miscela insieme alla farina per produrre pane, e quindi un’altra grida per fissare il prezzo del riso.
Il narratore ci indica quali sono stati i frutti delle sommosse dell’11 novembre, ai quali Renzo ha assistito:
(…) guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s’aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov’era la casa del vicario di provvisione.
Quindi Manzoni/narratore ci mostra il realismo storico, offrendoci il quadro della situazione esistente realmente a Milano e ci dice espressamente che esistono “relazioni di più d’uno storico” che descrivono “il ritratto del paese, e della città principalmente, nell’inverno avanzato e nella primavera“.
“La copia di quel racconto doloroso” viene effettuata grazie alla cronaca oculare di Giuseppe Ripamonti.
Ecco l’immagine di una Milano con le botteghe chiuse e le fabbriche vuote, mentre per strada è evidente l”indicibile spettacolo” della miseria e dei patimenti: gli accattoni si confondono tra la gente nella quale troviamo garzoni e giovani licenziati dai loro padroni di bottega, padroni falliti, operati e maestri artigiani, servitori ed indigenti vari.
Poi viene analizzata in parte la classe dei contadini, della quale il narratore ci dice essere “il più compassionevole spettacolo“: con facce “affilate e stravolte“, “occhi incavati“, sguardi fissi “tra il trovo e l’insensato“, capelli arruffati, barbe lunghe ed irsute, corpi esausti dal disagio.
A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l’elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l’avevan ricevuta. Garzoni e giovani licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de’ padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri d’ogni manifattura e d’ogn’arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese, chiedendo pietosamente l’elemosina, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e dalla fame ne’ panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora i segni d’un’antica agiatezza; come nell’inerzia e nell’avvilimento, compariva non so quale indizio d’abitudini operose e franche. Mescolati tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella solita pompa di seguito. E a tutti questi diversi indigenti s’aggiunga un numero d’altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co’ loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all’accatto.
Qua e là per le strade un po’ di paglia “pesta, trita e mista d’immondo ciarpume“: sono i covili dove passare la notte e giacere di giorno.
A volte vicino a questi covili si trova qualcuno che attirato dalla compassione presta soccorso: è “la mano del buon Federigo“.
Il cardinale Federico Borromeo ha scelto sei preti che a coppie devono coprire un terzo della città e prestare aiuto e soccorso ai bisognosi in termini concreti di cibo e anche spirituale, a quelli che sono più in forza denaro perché si possano rimettere presto nello stato precedente alla carestia.
Lui stesso visita la città, quartiere per quartiere, dispensando elemosine e soccorrendo in segreto tante famiglie povere.
Durante il giorno si sentono voci supplichevoli, come un ronzio, “un sussurro di gemiti, rotto di quanto in quando da alti lamenti scoppiati all’improvviso, da urli, da accenti profondi d’invocazione” che sfociano in acute grida.
La mortalità crea ogni giorno un vuoto in questa “deplorabile moltitudine” che però viene riempito dall’arrivo di nuove persone dai paesi vicini, dal contado e dalle città dello stato milanese.
“Vidi io,” scrive il Ripamonti, “nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna… Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso… Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa… Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno.”
Questo quadro di miseria, lamento, patimento e morte fa da sfondo a tutto l’inverno del 1628 e alla primavera del 1629.
Il tribunale della sanità valuta il pericolo di contagio che sta sovrastando la città e propone che gli accattoni vengano raccolti in diversi ospizi, ma i cadaveri aumentano sempre di più ogni giorno, quindi si decide che accattoni, sani ed infermi vengano radunati tutti in un solo luogo dove siano mantenuti e curati a spese del pubblico: il lazzaretto.
Vi rimandiamo all’articolo sul lazzaretto per leggere la descrizione fisica del luogo che il narratore fa a questo punto del romanzo, mentre noi proseguiamo.
Nel giro di pochi giorni, tra chi ci arriva spontaneamente e chi ci viene trasportato, si contano “più di tre mila” persone, ma molti di più restano fuori.
In ogni stanza viene messa paglia per terra e vengono effettuate provviste di viveri “dalla qualità e nella quantità” possibile.
Com’è la situazione in queste stanze e al lazzaretto in generale? Ce lo dice il narratore:
Dormivano ammontati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po’ di paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra: perchè, s’era bensì ordinato che la paglia fosse fresca e a sufficienza, e cambiata spesso; ma in effetto era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava.
(…)
Si disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto fosse alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo credibile che non fosse uno di que’ lamenti in aria. D’acqua perfino c’era scarsità; d’acqua, voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune, doveva esser la gora che gira le mura del recinto, bassa, lenta, dove anche motosa, e divenuta poi quale poteva renderla l’uso e la vicinanza d’una tanta e tal moltitudine.
A tutti questi mali di ordine oggettivo, dobbiamo aggiungere il sentimento dei diversi mali, quali “la noia e la smania della prigionia“, il ricordo delle vecchie abitudini, il dolore dei cari perduti, la memoria inquieta dei cari assenti ed il ribrezzo ed il tormento di ognuno, uniti alla rabbia e all’abbattimento.
Ovviamente lo “spettacolo continuo della morte” rappresenta un’altra e decisamente la più significativa delle ragioni di uno stato di malessere esteso ed intenso.
In questo recinto che è il lazzaretto la mortalità cresce e regna e per molti ha preso il “nome di pestilenza“: in poco tempo il numero dei morti al lazzaretto oltrepassa il centinaio (il Tadino scrive che “in alcuni giorni si trovavan da seppellire 70 e 80 cadaveri, e alcune volte sono arrivati fino a 110“.
Il tribunale della sanità decide di lasciare andare i poveri non ammalati, che con gioia si riversano lamentosi nelle vie della città.
Intanto i campi iniziano a biondeggiare e gli accattoni del contado se ne vanno per la mietitura.
Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin nell’autunno. Era sul finire, quand’ecco un nuovo flagello.
Digressione storica sullo stato dei domini e sull’opera di conquista degli spagnoli sul ducato di Mantova, che però risulta difficile, quindi interviene a sostegno della Spagna l’impero germanico, suo alleato, inviando un esercito che invade i Grigioni e la Valtellina destinato ad arrivare nel milanese per poi andare ad assediare Mantova.
Al tribunale della sanità giungono notizie che in quell’esercito covasse la peste.
Uno dei magistrati avvisa il governatore spagnolo don Gonzalo in merito al pericolo, ma quest’ultimo, più impegnato a ritagliarsi un posto nella storia che altro, risponde che i motivi per i quali l’esercito si era mosso sono ben maggiori del pericolo presentato, che si faccia quindi il meglio e si speri nella Provvidenza.
Detto questo parte lasciando Milano: viene rimosso per gli insuccessi della guerra, di cui era stato promotore e capitano, inoltre il popolo lo incolpa di aver sofferto la fame sotto il suo governo.
Si allontana in carrozza e la moltitudine gli riserva fischi, tira sassi, mattoni, torsoli, bucce d’ogni sorta.
Al posto di don Gonzalo viene inviato il marchese Ambrogio Spinola.
Intanto nel settembre l’esercito alemanno entra nel ducato di Milano. Un esercito di mercenari, soldati di ventura arruolati da condottieri di mestiere.
Eran vent’otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.
(…)
Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco.
Articolo aggiornato il 4 Ottobre 2023 da eccoLecco