Manzoni e la questione della lingua
L’inadeguatezza della lingua letteraria e la soluzione fiorentina
Alessandro Manzoni ha dato un contributo linguistico incalcolabile alla letteratura italiana con la redazione finale del suo romanzo, I Promessi Sposi, fornendo un nuovo modello di lingua letteraria, un modello libero dell’antico “cancro della retorica“, come sosteneva un grande linguista dell’Ottocento, Graziadio Isaia Ascoli.
Manzoni si è lungo dibattuto sul tema della lingua, infatti per il suo romanzo, indirizzato ad un pubblico più ampio e nel quale venivano trattati problemi vivi nella coscienza contemporanea, voleva una lingua che fosse facilmente comprensibile e non più legata alla tradizione aulica e destinata a chi aveva una certa formazione culturale.
Nel carteggio con l’amico Fauriel, (si veda anche il realismo storico di Manzoni), precisamente nella lettera datata 3 novembre 1821, Manzoni così scrive:
Manca completamente a questo povero scrittore questo sentimento – per così dire – di comunione col suo lettore, questa certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
Si chieda se la frase appena scritta sia italiana: come si potrà dare una risposta sicura a una domanda che non è precisa? Che cosa significa italiano in tal senso? Secondo certuni [italiano] è ciò che è consegnato nella Crusca, secondo altri ciò che si capisce in tutta Italia, ovvero dalle classi colte; la maggior parte non applica a questa parola alcuna idea determinata. Io vi esprimo qui in maniera vaga e molto incompleta un sentimento reale e doloroso. La conoscenza che Voi avete della nostra lingua vi suggerirà subito quel che manca alle mie idee, ma temo che essa non vi indurrà a contestarne il nocciolo. Nel rigore feroce e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio avviso un sentimento generale del tutto ragionevole: è il bisogno di una certa fissità, di una lingua convenuta fra coloro che scrivono e coloro che leggono. Penso che abbiano solo il torto di credere che tutta una lingua si trovi nella Crusca e negli scrittori classici e che, quando pure vi fosse, avrebbero torto anche di pretendere che la vi si cerchi, che s’impari, che ci se ne serva. Giacché è assolutamente impossibile che dai ricordi della lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante di tutto il materiale di una lingua. Ditemi che cosa debba fare oggi un italiano che, non sapendo fare altro, voglia scrivere. Quanto a me, disperando di trovare una regola costante e speciale per far bene questo mestiere, credo tuttavia che vi sia anche per noi una perfezione approssimativa di stile, e che per trasferirla il più possibile nei propri scritti bisogni pensare molto a quel che si dirà, aver letto molto gli italiani detti classici e gli scrittori di altre lingue, soprattutto francesi, aver parlato di temi importanti con i propri concittadini, e che con ciò si possa acquisire una certa prontezza nel trovare nella lingua cosiddetta ‘buona’ quel che essa può fornire ai nostri bisogni attuali, una certa attitudine a estenderla con l’analogia, e un certo qual tatto per estrarre dalla lingua francese quello che può essere mescolato alla nostra senza urtare con una forte dissonanza, e senza aggiungervi oscurità. Così, con un lavoro più penoso e ostinato si farà meno male possibile quel che voi fate quasi senza fatica. Concordo con Voi che scrivere un romanzo in italiano sia una delle cose più difficili, ma trovo questa difficoltà in altri soggetti, sebbene a un grado inferiore; e con la conoscenza non completa ma sicura che ho della imperfezione dell’operaio, sento anche in una maniera pressoché sicura che ve ne ha molta nella materia.
Lamenta le difficoltà che la lingua italiana oppone alla scrittura di un romanzo, difficoltà che derivano dalla mancanza di costrutti e specialmente da un “codice” che consenta a chi legge di comprendere chi scrive.
Manzoni desidera trovare uno strumento comunicativo che sia biunivoco.
Dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi
Alessandro Manzoni compie un percorso di diversi passaggi verso quel codice che desiderava per il suo romanzo (per approfondire vedi la genesi dei Promessi Sposi):
- stesura del Fermo e Lucia (1821-23)
utilizzo di una lingua di compromesso, costituita da una base di toscano letterario, arricchito da apporti della parlata viva e da termini francesi, che si potevano combinare al lessico italiano senza creare dissonanze
- revisione del 1824
abbandona la lingua composita privilegiando il toscano e scopre molte concordanze tra i modi toscani e quelli degli altri dialetti, in particolare il milanese
- soluzione fiorentina del 1827
il viaggio a Firenze per Manzoni fu come una folgorazione o come dice il Migliorini “fu una rivelazione: quella lingua tanto faticosamente cercata nei libri, eccola viva, agile, reale, nei Fiorentini colti con cui veniva a contatto“. Trova così definitivamente la soluzione alla questione della lingua: la lingua unitaria, quella da usare sia in letteratura che nella vita sociale e il fiorentino delle persone colte, non la lingua morta dei libri del Trecento e del Cinquecento, come volevano i puristi, ma lingua viva, parlata ed attuale
- revisione del romanzo ed edizione finale del 1840
Così Manzoni riprende in mano I Promessi Sposi e compie un lungo lavoro di revisione linguistica che lo porta all’edizione finale del 1840, la cosiddetta Quarantana, illustrata con i disegni di Francesco Gonin.
Alessandro Manzoni e gli scritti sulla questione della lingua
Se è vero che I Promessi Sposi, così come li leggiamo e studiamo a scuola, sono il compimento dell’importante lavoro di studio ed affinamento della lingua e delle scelte stilistiche compiute da Alessandro Manzoni per il suo romanzo, lo scrittore dopo la Quarantana ha voluto esporre le sue tesi legate al tema del lingua con diversi scritti:
- lettera a Giacinto Carena, 1847 / Sulla lingua italiana
Giacinto Carena era membro dell’Accademia delle Scienze di Torino, corrispondente dell’Accademia della CruscaSe sentiste, dico dunque a questi molti, che un dotto Piemontese, non trovando in Torino de’ vocaboli, che possa chiamare italiani, per esprimere una quantità di cose che si nominano a tutto pasto in Torino, come in tutta l’Italia, è venuto a cercar questi vocaboli italiani a Milano, o è andato a Napoli, o a Genova, o a Bologna, sono sicuro che ridereste, vi parrebbe strano: vi pare strano anche il figurarselo. Ma quando sentite che questo dotto Piemontese va tutti gli anni a star qualche tempo a Firenze per un tal fine, non ridete punto, non vi pare punto strano. E questo, ve n’avvediate o no, è un riconoscere implicitamente che la lingua italiana è là. Dico la lingua assolutamente; perchè il supporre che ci sia una lingua in tutta Italia, ma che una parte di questa lingua si trovi solamente in Firenze, è dimenticare affatto cosa sia una lingua, è applicare il nome a ciò che non ha le condizioni della cosa. Una lingua mancante d’una sua parte è un’idea contradittoria. Una lingua è un tutto, o non è. Certo, e inevitabilmente, a una lingua mancano de’ vocaboli, l’equivalente de’ quali si trova in altre lingue; ma perchè? perchè gli uomini di quella lingua non trovano le cose corrispondenti a que’ vocaboli, e non hanno nemmeno l’occasione di parlarne. Le lingue che, appartenendo a una società scarsa di cose e di cognizioni, hanno pochi vocaboli, si chiamano povere; ma si chiamano lingue, perchè hanno ciò che è necessario a costituirle tali. E cos’è che costituisce una lingua? cosa intende per questo nome il senso comune? Forse una quantità qualunque di vocaboli? No davvero; ma bensì una quantità di vocaboli adeguata alle cose di cui parla la società che possiede quella lingua, il mezzo con cui essa dice tutto quel molto o poco che dice. E quale è il mezzo con cui gl’Italiani dicono tutto quello che dicon tutti? Ahimè! non è un mezzo, sono molti; e per chiamar la cosa col suo nome, sono molte lingue: la lingua di Torino, quella di Genova, quella di Milano, quella di Firenze, con un eccetera pur troppo lungo.
(…) Pur troppo i Fiorentini non pretendono d’aver la lingua italiana viva, vera e intera; ammettono, cioè suppongono anch’essi una certa lingua nominale, che, intera, non l’ha nessuno, ma loro n’hanno più degli altri, vai a dire hanno la porzione più grossa d’un tutto che non è; una certa lingua, della quale non sono i possessori, ma nella quale sono i primi. E come il conceder loro questo primato pare a noi altri giustizia, così il contentarsene par loro moderazione: due false virtù, che sono in effetto due modi d’un vero errore. E questa infelice concordia, in mezzo a più infelici discordie; questo esser la vera lingua così debolmente riconosciuta da tutti, anzi riconosciuta e rinnegata nello stesso tempo, viene principalmente dalla mancanza di circostanze che ne promovano la diffusione e il dominio. - 1856 / Saggio di vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze
composto con Gino Capponi
- 1830 – 1859 / trattato Della lingua italiana
trattato con ben 5 redazione, ma resta manoscritto1868 / Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla
il 14 gennaio 1868 Alessandro Manzoni venne nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione, Emilio Broglio, presidente della sezione milanese con Bonghi e Carcano di una commissione avente l’incarico:
– di fissare le regole, le forme, la pronuncia del corretto italiano
– e proporre i metodi per una sua diffusione “trasversale” all’interno della popolazione.
Nel marzo 1868 lo scrittore espone la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla nella quale spiega la sua proposta di diffondere la lingua fiorentina con un vocabolario, che costituisse un punto di riferimento certo ed impiegando docenti fiorentini nelle scuole elementari.Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale, particolarmente nelle nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario. E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario a proposito per l’Italia non potrebbe esser altro che quello del linguaggio fiorentino vivente.
Approfondimenti
VIDEO – Luca Serianni – Manzoni e la lingua italiana – L’Italiano. Dal latino a oggi
- VIDEO – Letteratura e lingua nella prima metà dell’800 con il Prof. Giuseppe Patota, Accademico della Crusca
La questione della lingua italiana dal Trecento alla prima metà dell’Ottocento. Dal volgare di Dante all’avvento della prosa manzoniana.
Articolo aggiornato il 8 Giugno 2022 da eccoLecco